I molti che ritengono che il bluegrass sia un genere musicale statico e immutabile nel tempo non avrebbero forse stentato a ricredersi a ascoltando le produzioni di gruppi nati negli ’70 come Country Cooking e Newgrass Revival, per non dire poi di quel personaggio geniale, estroverso e forse persino stravagante di nome John Hartford.
È indubbio che siano stati loro a spianare la strada, in tempi molto più recenti a realtà emergenti o del tutto consolidate come Infamous Stringdusters, Yonder Mountain String Band e Sharp Flatpickers, per dire i primi nomi che mi vengono in mente, ciascuno dei quali, a proprio modo, cerca di uscire dai cliché di un genere che oggi appare sostanziosamente rinnovato, contendendo la scena alla miriade di gruppi rimasti fedeli alla tradizione. A questa schiera crescente di innovatori vanno ascritti ovviamente anche i Nickel Creek ed i loro successori, i Punch Brothers, ammesso che la musica di quest’ultimi si possa ancora definire bluegrass: il gruppo fondato da Chris Thile, ovvero il minimo comune denominatore fra le due formazioni, non ha soltanto ulteriormente dilatato i confini del genere aprendosi alle più svariate influenze (dal rock al jazz passando soprattutto attraverso la musica colta) ma, esasperando ed esaltando sino quasi all’estremo le capacità tecniche dei suoi componenti (che pure anche nelle band più aderenti all’ortodossia è sempre stato molto elevato), è quasi del tutto fuoriuscito dagli schemi basilari su cui si fondava questa musica tanto da risultare oggi assai arduamente inquadrabile in uno specifico settore. Gli strumenti però restano quelli più caratteristici del bluegrass (banjo, violino, mandolino, contrabbasso e chitarra, oltre naturalmente alle voci) e sono rimasti nelle mani sapienti degli stessi protagonisti del precedente appuntamento discografico. Sono passati però più di tre anni da quel disco e, sorprendentemente, i cinque musicisti si sono finalmente ripresentati con un lavoro che è la ripresa per esteso di un album composto di sole cover interpretate da quello straordinario musicista che era Tony Rice: il disco si intitolava in origine “Church Street Blues” e conteneva brani tradizionali e composizioni provenienti dalla penna di alcuni cantautori folk più o meno famosi eseguiti da Tony in pratica con l’esclusivo accompagnamento della sua chitarra (a parte un paio di tracce in cui si aggiungeva il fratello Wyatt). A distanza di quasi quarant’anni i Punch Brothers hanno rieseguito l’intero disco brano per brano, con la stessa identica sequenza e l’unica differenza che due brani, “House Carpenter” e “Jerusalem Ridge” sono stati uniti fra loro in un medley di oltre sette minuti.
Personalmente non amo molto le recensioni in cui un disco viene analizzato brano per brano ma, nel caso di “Hell On Church Street”, ciò risulta quasi indispensabile tante sono le soluzioni musicali e i modi che sono stati adottati per rivedere le tracce del disco da cui è derivato. Si parte con il brano che gli dava titolo, una composizione di Norman Blake interpretata da molti, fra i quali il nostro Beppe Gambetta; la versione dei Punch Brothers è naturalmente più ricca sotto l’aspetto strumentale, e non solo per il numero di strumenti ma per quella è che l’attitudine della band, ma soprattutto è caratterizzata da un significativo cambio di tempo ed è suonata in 5/4, a parte la fase finale che si allinea ai 4/4 in cui il brano è normalmente interpretato. Segue il primo motivo strumentale, “Cattle Cane”, proveniente dalla tradizione e forse fra gli episodi più vicini al “vero” bluegrass, anche se suonato in maniera vibrante come lecito aspettarsi da questi musicisti e con un’inevitabile valanga di note. Il clima cambia radicalmente con “Streets Of London”; la canzone di Ralph McTell, quasi sussurrata nel cantato di Thile, è rallentata e calata in un arrangiamento molto cameristico e a tratti persino atonale che conferisce ulteriore drammaticità alle già profonde litiche del cantautore inglese. Con “One More Night” (di Bob Dylan) si torna a viaggiare su ritmi più spediti ma qui, a parte la consueta cascata di note, non si segnalano tratti particolari e la canzone viaggia sui binari del migliore bluegrass, a parte il cantato a due voci che raggiunge alti livelli di espressività. “The Gold Rush” è un altro strumentale ed è lontano anni luce da come concepito dal suo autore, Bill Monroe, che non sono certo avrebbe apprezzato molto; se prima era un brano trascinante dal sapore vagamente “Irish, qui è presentato in una versione lentissima, quasi immobile, dove molto a fatica fra le pieghe delle armonie si riesce a intravedere la melodia affidata al violino di Gabe Witcher. Dal repertorio di un’altra figura fondamentale nella storia della musica americana del ‘900 proviene “Any Old” di Jimmy Rodgers, uno dei padri della country music; eseguita apparentemente senza grandi impennate dal punto di vista della creatività, la versione è comunque convincente per il suo andamento piuttosto scanzonato e frizzante che ricorda non poco gli Old Crow Medicine Show dei primordi. Ancora alla penna di Norman Blake si deve “Orphan Annie”, introdotta dal contrabbasso di Paul Kowert sui cui si sovrappone la voce del leader (subito dopo raddoppiata) prima che entrino gli altri strumenti; il brano ha un’atmosfera delicata e molto folk, con uno splendido uso delle voci e di nuovo il violino grande protagonista. Si ritorna alla tradizione con “House Carpenter” ma solo perché da lì scaturisce questa antica “Child ballad”, diventata il punto di partenza per un vero tour de force che fa sfoggio della abituale ricchezza strumentale, con ripetuti cambi di tempo ed una certa veemenza, a tratti persino caotica nella sua epicità; tutti elementi che si ritrovano in parte nel finale strumentale ovvero quella “Jerusalem Ridge” di cui si è detto sopra, un’altra composizione di Bill Monroe stavolta invero un po’ più rispettosa nell’esecuzione. Un altro grande protagonista del folk revival americano degli anni ’60, Tom Paxton, è l’autore di “The Last Thing On My Mind”, in verità una delle sue canzoni più famose e più reinterpretate, e spesso anche da artisti e gruppi bluegrass; anche questa è stata trasfigurata da armonie inattese che fluttuano soprattutto su un ostinato di violino e mandolino di carattere decisamente minimalista. Di tutt’altro tenore è “Pride Of Man”, la canzone più famosa di Hamilton Camp (altro protagonista della stagione del folk revival urbano) che è stata ripresa anche dai Quicksilver Messenger Service; si apre con poche note della chitarra di Chris Eldridge per trasformarsi quasi immediatamente in un torrente inarrestabile trainato dal solito inappuntabile banjo di Noah Pikelny, aumentando di tensione e ritmo durante tutto il suo scorrimento. “Hell On Church Street” giunge al termine con l’episodio forse più complesso e frammentato: “The Wreck Of Edmund Fitzgerald” è proposta con una scansione più ritmata (e accorciata di quasi due minuti) rispetto alla versione del suo compositore, Gordon Lightfoot, per altro uno degli artisti più amati da Tony Rice che a lui infatti dedicò un intero album uscito nel 1996. Si parte con la voce di Thile sostenuta soltanto dal violino dopodiché intervengono, uno dopo l’altro, gli altri strumenti in un vero crescendo di emozioni e suoni che raggiunge il suo apice quando la band è “in pieno volo” e le voci diventano tre; nel momento in cui il testo della canzone snocciola i nomi dei “Grandi Laghi” che fanno da sfondo alla tragedia in cui si è consumato il naufragio della nave che dà titolo all’album, le armonie svaniscono rapidamente così come l’accompagnamento strumentale, con l’ultimo verso eseguito a cappella prima che il gruppo ritorni al gran completo riprendendo la melodia principale. Questo episodio in pratica condensa e riassume, nei suoi quattro minuti e quarantasei secondi, il coraggio, lo straordinario virtuosismo ed il carattere assolutamente unico dello stile elaborato dai Punch Brothers.
Non so dire se “Hell On Church Street” incontrerà il parere positivo degli appassionati del bluegrass più tradizionale, probabilmente no, ed è comunque un disco che richiede diversi ascolti prima di riuscire a penetrare nel suo contenuto e comprenderlo pienamente, tuttavia è probabile che potrà piacere ad un pubblico più ampio purché evoluto o dal palato sufficientemente raffinato.
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Massimo Ferro
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