Mario Pigozzo Favero – Mi commuovo, se vuoi (Dischi Soviet Studio, 2022)

Noto per essere il front-man dei Valentina Dorme, Mario Pigozzo Favero, messa in stand-by l’esperienza con la band, giunge al suo debutto solista con “Mi commuovo, se vuoi”, album nato da una gestazione durata tre anni e che mette in fila undici brani che combinano gusto musicale e classe letteraria. L’apertura del disco è affidata a “Pornostar” (“La condanna è uno zenith di umanissima crudeltà”), giocata sull’incastro tra elettronica e riff sofficemente punk della chitarra elettrica, sostenuti da una avvolgente linea di basso, e nel quale si inserisce perfettamente la voce calda dell’autore. Un pattern ritmico quasi tribale scandisce ossessivamente “Ai defilati” (“Ai bipolari al respiro breve, stritolati dall’ansia quando picchia duro, dentro il solito aprile o in un maggio stellato”), episodio in cui le svirgolate di una tromba crepuscolare squarciano l’asfissiante stasi dinamica costruita dagli accordi del piano e dai fraseggi della chitarra. “Le preghiere della sera” (“Nel buio che consola in sagrestia la sera, sempre prima della messa prendo amore e ne do, ripeto sottovoce le preghiere della sera, un sorso di Rosso Antico, concludo in bocca si va. Vorrei vedere voi rinunciare alla gioia che c’è”) si snoda lungo lo strumming serrato di una chitarra acustica, con gli sbreghi sporchi della chitarra elettrica a creare nervi e tensione, ed i synth ad aprire i ritornelli. Sapori carioca accompagnano “Latakia” (“E quel che resta si insinua in fretta nei ricordi, poi latita, assume forme di isoscele e palpita. Il desiderio è una bolla, una gotta, sinfonia un po’ triste della gioia che va”), con una chitarra ad arpeggiare, un basso sinuoso ad insinuarsi fra le strofe ed i cori a ricamare contrappunti. “Avvoltoi” (“Amarsi è un atto ignobile di carità, l’incontro tra due idioti e la meschinità, un’invenzione per poeti e cagne tristi. E industriali elegantissimi, prima del crack”), uno dei passaggi più interessanti dell’intero lavoro, vede il ritorno di schitarrate elettriche moderatamente acide, con i sintetizzatori a fare ancora da base melodica ed una linea di basso che esplora la tastiera come fosse su un ottovolante. A sostenere “Uno dei tanti Orfei” c’è una sghemba chitarra elettrica, sgambettata dal levare di un organo, con uno strumentale al centro inacidito da schitarrate causticamente sferraglianti. Le nebbie di un umido arpeggio di pianoforte, appena diradate da un basso splenico, avvolgono “El sbrego”, malinconico episodio in veneto. Altro passaggio molto interessante è “L’inferno siamo noi” (“Cosa resterà di noi, oltre ai profili inventati, oltre alle musiche e ai cliché, ai porno estremi sempre nuovi”), ballata dai colori eleganti, con un delicato arpeggio di pianoforte inebriato dalle vette scalate da un oboe vertiginoso. Si cambia completamente registro su “E la nave va” (“Io e te a fingere serenità, io e te sorelle fragili tra morfina e paternità. Io e te a organizzare cene e sbronze, in attesa del prossimo chissà”), brano in cui il pattern secco della batteria ed una languida linea di basso accompagnano un ripido intreccio di umidi sintetizzatori. “Franchino ‘57” è costruita su una sezione ritmica marcettistica, che esplode di distorsioni nel ritornello. Su “Un tale singhiozza” arriva l’ennesimo spariglio di carte del disco: un basso secco, una sezione ritmica nevrotica, fraseggi di chitarra in odore di industrial ad accompagnare un brano furibondo, con brucianti venature rap. “Il metro del sarto” (“Che bella fine abbiamo fatto, amore, e che tristezza ignorata, infine, il pianto continuo degli altri, che non riescono come noi a trovare questa pace di koala abbracciati”), penultimo passaggio del disco, è un intenso spoken word che poggia su un denso pianoforte malinconico. A chiudere il lavoro ci pensa “L’orco di Sigurtà” (“Ti racconterò la gioia delle formiche , la bellezza del contadino, di Berlinguer e di Sigurtà. Faremo collezione di dischi belli, impareremo la solitudine e come si sconfiggerà”), brano giocato sui ghiribizzi del pianoforte preparato, colorati dai briosi contrappunti dell’oboe. In ultima analisi, Mario Pigozzo Favero ha dato vita ad un disco che, per cura, attenzione e calibro, sembra quasi d’altri tempi, e invece, complice la splendida produzione di Martino Cuman, è (e suona) modernissimo. La scrittura è tagliente, senza compromessi, degna del cantautorato più puro. 


Giuseppe Provenzano

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