De Kaboul à Bamako – Sowal Diabi (Accords Croisés, 2022)

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“Domanda-Risposta” è il titolo dell’album del collettivo Da Kabul à Bamako, perché “sowal” significa domanda in persiano e “diabi” è risposta in bambara. Una rotta immaginifica che intende simboleggiare una comunità di destini diasporici, concepita da Saïd Assadi – musicista iraniano esiliato in Francia dagli anni ’90, fondatore della casa discografica Accords Croisés e del festival Au Fil des Voix, tra le tante altre sue attività –, che vede la partecipazione di cantanti e musicisti che anch’essi hanno scelto di lasciare i propri Paesi: la cantante maliana Mamani Keita, la cantante e violinista iraniana Aïda Nosrat, il compatriota Sogol Mirzaei, suonatore di târ, Ruşan Filiztek, turco di origine curda, cantate e suonatore di saz, oud e daf (già titolare per la stessa label dell’intrigante “Sans Souci” in compagnia del duduk di Artyom Minasyan), Siar Hashimi, cantante e tablista afghano e la band francese di ispirazione ethio-jazz, Arat Kilo, formata da Fabien Girard (chitarra elettrica), Michaël Havard (sassofoni), Aristide Gonçalves (tastiera e tromba), Gérald Bonnegrace (percussioni), Samuel Hirsch (basso elettrico) e Florent Berteau (batteria). Quello di De Kaboul à Bamako è un cammino transculturale, iniziato a Bruxelles nel 2019 all’interno di un più vasto progetto culturale, che coinvolgeva musicisti, attori di teatro e designer di moda, culminato nel simposio Culture For Future, diretto da Clara Bauer sotto l’egida UE, e proseguito con un concerto organizzato per la Mostra del Cinema di Venezia del 2020. 
Ora diventato finalmente un album, che si dipana in quattordici brani, in cui si raccolgono diversità di modi e di timbri strumentali e vocali, ma la cui premessa è senz’altro il mutuo ascolto tra artisti di così differente formazione. Ci si mette in viaggio con “Désert”, composto da Filitzek: un tema imperniato sulle smaglianti voci femminili (Keita e Nosrat, due artiste di così diversa estrazione: la prima autodidatta, la seconda imbevuta della tradizione classica persiana) e sull’incontro tra corde mediorientali e fiati. Un impianto ritmico subsahariano si combina con una danza iraniana in “Solila”. Primeggiano le ornamentazioni di violino, târ e chitarra elettrica in “Master Gui”, brano composto da Fabien Girard (chitarrista degli Arat Kilo), che vede ancora l’alternanza fra le due voci femminili. Le atmosfere si riscaldano decisamente con “Kera Kera”, uno dei motivi di punta del lavoro, combinazione di tradizione mandinga e ritmi anatolici, che fa risaltare appieno l’insieme strumentale. Nella brevissima “Dalila” la voce di Keita si appoggia al sax baritono e il tamburo daf. Il vibrato di Aïda è protagonista con il saz di Ruşan nella successiva “Ecoute le Ney”, dove si riprendono i celebri versi di Rûmi che evocano il senso di sradicamento e di nostalgia. 
Invece, ritmi in levare e dub possiedono “Layli Jan”, canto d’amore tradizionale afghano. Superlativa la compenetrazione di timbri e modi in “Dia Barani”, in cui Keita evoca la propria infanzia di venditrice di arance a Bamako. Con “Drums Talk” le tabla di Siar Hashimi prendono la scena, mentre i versi di un ghazal di Farid al-Din Attar (XIII secolo) “Râhé Nour” sono illuminati dal canto di Aïda, accompagnata dal piano elettrico. Il viaggio di “Snow in Addis”, è un altro pezzo forte dell’album, sorta di attraversamento musicale dalla valle dell’Indo all’Anatolia, passando per le coloriture ethio-jazz. Tabla, chitarra, sax, elettronica e flauto sono al centro di “Zolf Porayshan, brano in stile qawwali, cantato da Siar Hashami, il cui testo è attribuito a poeta Hafez. Infine, si approda a “Mirage”, strumentale sviluppato in due “movimenti”, dall’incedere prima riflessivo poi esplosivo, con la tromba a contrappuntare splendidamente le corde del târ. Un imperdibile flusso di bellezza raggiunto con naturalezza da musicisti disposti in completa armonia. 


Ciro De Rosa

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