Un ricordo di Miguel Ángel Estrella (1940 – 2022)

All’alba del 7 aprile all'alba, a ottantuno anni, è morto a Parigi Miguel Ángel Estrella. Ha saputo unire alle sue rare abilità e sensibilità come pianista la capacità di intersecare la musica ai temi della pace e della giustizia sociale. Era nato a San Miguel de Tucumán il 4 luglio 1940, in una famiglia di emigranti libanesi il cui cognome era Nashem (in arabo significa stella, “estrella” in spagnolo). La sua infanzia è legata a Vinará, nel dipartimento del Río Hondo (Provincia di Santiago del Estero), e alla sua natura cui è rimasto legato per tutta la vita. In tempi recenti aveva raccontato in un’intervista al giornale Rio Negro: “Il fatto che io abiti a Parigi, dove vivono i miei figli, non significa che dimentichi il mio paese dove torno tre-quattro volte ogni anno. Lì, con mio fratello Jorge, abbracciamo spesso gli alberi per sentirne il profumo, come quando eravamo bambini”. All'età di dodici anni, restò colpito dalla musica di Chopin ascoltata durante un concerto a Tucumán e, a diciotto anni, si trasferì a Buenos Aires per studiare al Conservatorio Nazionale, con Orestes Castronuovo, Erwin Leuchter e Celia de Bronstein. Nel 1965, una borsa di studio del Fondo Nacional de la Artes gli permise di proseguire la sua formazione a Parigi, con maestri come Nadia Boulanger, Marguerite Long, Ivonne Loriot, Olivier Messiaen e Vlado Perlemuter. Qui, nel 1966, ascolta Peron incoraggiare i giovani peronisti a dar corpo al proprio impegno politico a partire da quel che è alla loro portata nella vita quotidiana: matura così l’idea di dar corpo a “Música Esperanza”, saper condividere esperienze musicali di qualità nei luoghi e con le persone cui sono meno accessibili, un impegno che il regista Jorge Zuhair Jury ha saputo raccontare nel film “El piano mudo”,  in cui Estrella è interpretato dall’attore Sebastián Blanco Leis. 
Il film si apre con l'artista che con un camion trasporta il suo pianoforte attraverso zone desertiche, incontrando comunità rurali, quartieri popolari, dando concerti in prigioni, scuole e ospedali. Da un lato poteva contare sull’ attività discografica e di concertista internazionale, fra Europa, Canada, Stati Uniti, Messico; dall’altro promuoveva una “politica artistica” di proposta di musiche di Bach, Mozart, Beethoven Chopin, Brahms dove non erano mai state ascoltate, insieme ad arrangiamenti per piano di musiche e danze popolari che a poco a poco entrarono a far parte anche del suo repertorio “classico”. Lo raccontava così, in un’intervista del 2014 al quotidiano Pagina 12: “Mi interessava raccontare perché ero innamorato di Brahms, ma dal mio punto di vista di nativo dell’Argentina rurale, figlio di un poeta socialista e di una madre maestra di scuola, cresciuto nel remoto nord-ovest, una specie di Macondo dove il miracoloso sembrava naturale. È così che ho iniziato con i concerti-conversazione, proponendo un altro modo di ascoltare, cercando di stabilire un'altra relazione con l'ascoltatore. Ho creato un circuito di concerti ispirati dall’amicizia e dalle relazioni umane. Mi sono preso la libertà di andare a suonare dove volevo, comprese terre occupate, quartieri marginali e comunità indigene. Avevo frequentato il conservatorio perché dovevo farlo, bisognava avere una laurea, ma anche allora, con la mia compagna, Marta González, odiavamo quel tipo di istruzione individualista. Il conservatorio offriva una formazione competitiva, in cui se non sei il primo della classe, sei inutile. Questo incoraggia l'ego. L'ho sperimentato al conservatorio a Buenos Aires e poi a Parigi, a Londra, in Unione Sovietica. È un circolo vizioso, dove alla fine gli insegnanti finiscono per dedicarsi ai migliori, perché sono quelli che gli daranno prestigio come musicista e insegnante. 
Tutto questo è malsano e perverso, perché genera rabbia tra coloro che sono emarginati da questo sistema. Da allora penso a un conservatorio ideale, che ci prepari non a essere i migliori del mondo, ma i migliori che possiamo essere. E che ci insegni anche ad interagire con la società in cui viviamo, ad essere parte di quella società e non a pensare come essere speciali”
. Con l’avvento della dittatura argentina entrò a far parte della resistenza peronista, con il nome di El Doctor Negrete, e finì nella lista nera della repressione. Nel 1976 fu quindi costretto a lasciare l’Argentina, trasferendosi con la famiglia a Montevideo nel tentativo di raggiungere il Canada per poter continuare la propria attività professionale. Ma a dicembre 1977, all’interno del Piano Condor, fu sequestrato e venne imprigionato per oltre due anni insieme ad altri attivisti argentini da un gruppo paramilitare della dittatura uruguaiana e venne brutalmente torturato, con un accanimento particolare per le mani. La sua capacità di resistenza fu esemplare. Nel 2010, Tiempo Argentino gli chiese come fu capace di resistere alle torture. Questa è la sua risposta: “Avevo tre risorse. Parlato con i miei morti che a volte mi hanno anche risposto. In una sessione di tortura, mentre i torturatori mi urlavano contro, ho sentito fisicamente le voci di due donne. Una, quello della mia insegnante Nadia Boulanger, che mi diceva in francese: ‘Sei migliaia’. L'altra voce, quella di mia moglie, che era morta, mi diceva: ‘Abbi coraggio, amore mio’. Non sai quanta forza mi abbia dato. Ho pregato come un animale. Ho gridato: ‘Padre nostro che sei nei cieli’, per decine di volte, finché nell'oscurità – dato che ero appeso nudo e incappucciato – ho visto Dio, la faccia di mio padre con un’enorme barba, come ci immaginiamo l’Onnipotente. 
Poi mi rivolgevo alle persone della mia vita, come mio fratello Jorge, e cercavo il primo ricordo che avevo di lui, quando eravamo piccoli e facevamo il bagno insieme; da lì ricostruivo tutto fino all'ultima volta che l’avevo visto. Mi sono aiutato con queste cose. E poi, del tentativo di concentrare l’attenzione al comporre. Per esempio, cercavo di sentire la voce di mia moglie che canta e di immaginare gli strumenti che la accompagnavano. Mi concentravo su questo lavoro intellettuale per sentire meno il dolore dato dai colpi di stiletto o dalle botte che mi infliggevano durante la tortura. Queste tre cose fanno parte della mia cultura: l’amore per i miei morti, per la mia gente e per la musica. Anche oggi ho dei rituali. Due o tre volte alla settimana, suono per i miei morti: li nomino mentre suono e racconto loro cose che li riguardano. Sono rituali di un cristiano che ha sempre avuto un rapporto difficile con la Chiesa”
. A salvargli la vita fu innanzitutto la pronta risposta della comunità artistica parigina che seppe mobilitare personalità come Yehudi Menuhin (che scrisse personalmente alle autorità uruguaiane) in modo da prevenire la sua consegna al regime argentino all’interno del Piano Condor. Ma non le torture. Così Estrella ricorda quei mesi: “Tra le brutali torture, mi hanno sottoposto alle scosse elettrico, al ‘sottomarino’, al restare appeso per decine di ore, con percosse brutali. Tra le pressioni psicologiche, la più frequente era la simulazione della mutilazione delle mie mani. Volevano farmi firmare delle dichiarazioni in cui ammettevo di essere venuto in Uruguay per organizzare una cellula di Montoneros per compiere attentati in Argentina. Hanno cercato di convincermi a denunciare amici. A un certo punto ho detto loro: ‘Non firmerò mai niente di quello che mi chiedete. Tagliatemi le mani, uccidetemi e che Dio vi perdoni’. 
Da quel momento in poi, gli interrogatori si sono interrotti e ho avuto una conversazione con la persona che doveva essere responsabile della tortura”
. È a quel punto che venne consegnato al tenente-colonnello José Nino Gavazzo, responsabile del piano Condor in Uruguay che gli disse: “Non ti uccideremo, né ti manderemo in quei posti terribili del vostro paese dove nascondono i prigionieri. Non siamo come i militari argentini: non uccidiamo... ma non preoccuparti! Vi distruggeremo e marcirete in prigione. Dopo un buon numero di anni ti renderemo incapace di essere un uomo, un artista, un essere sociale; come attivisti, sarete completamente distrutti”. Al contrario, in prigione, pur senza uno strumento, Estrella seppe trovare forme inedite per condividere musica, insegnarla, raccontarla: “Non saprei dire perché, ma i miei compagni di prigione, la prigione fascista sudamericana, mi hanno sempre associato alle storie che raccontavo su Beethoven. [...] Dicevo loro che Beethoven era stato un testimone della sua epoca, che aveva vissuto un periodo di speranza innescato dalla Rivoluzione Francese, ma che aveva anche vissuto un periodo di grande repressione che somiglia in qualche modo alla repressione che stavamo vivendo in quella prigione in Uruguay. Spesso dicevo loro: i letterati al tempo di Beethoven gli chiedevano di scrivere tutta la musica che poteva, perché le note non si potevano mettere in prigione, non si può mettere la musica in prigione”. “La musique en prison”, è il titolo dell’LP che nel 1979 viene pubblicato e diffuso dai comitati per la sua liberazione sorti in Europa e nelle Americhe, con registrazioni di Estrellas che suona, fra l’altro, la Sonata per piano 17 dal “La tempesta” di Beethoven. 
La campagna era stata avviata da Nadia Boulanger insieme a Boulez, Menuhin, Xenakis e all’imprenditore Yves Hagenauer che dalla base di Neuilly aveva saputo battere qualsiasi pista possibile, fino ad arrivare alla liberazione del pianista a febbraio del 1980. Dopo una lenta e dolorosa riabilitazione, Estrella riprese ad unire la musica alla promozione dei diritti umani e fondò il 10 dicembre 1982 il movimento internazionale “Música Esperanza”, che promuove il ruolo della musica nelle interazioni sociali, ponte fra culture e strumento di pace. Riprese a tenere una media di cento concerti all'anno, spesso dedicati a programmi di solidarietà. Insieme alle Madri di Plaza de Mayo collaborò alla creazione di una scuola di musica popolare, con un’attenzione specifica per la dimensione sociale del musicista, e con un laboratorio sperimentale per bambini maltrattati. Nel Mercosur è stato promotore del programma "La voz de los sin voz", dedicato a contadini e gruppi indigeni. Guardando al Medio Oriente ha promosso il contributo argebntino all'Orchestra per la Pace, composta da quaranta giovani musicisti delle tre religioni dei figli di Abramo (cristiani, musulmani ed ebrei). In Argentina, è stato l'architetto del Concorso Pianistico Chopin, un concorso in cui a tutti i partecipanti la giuria offre un feedback scritto. La sua discografia comprende lavori solisti, con orchestra, o con il Cuarteto de dos mundos - il gruppo con musicisti come il chitarrista Omar Espinosa e il suonatore di quena Raúl Mercado. 
Dal vivo sapeva tessere con umanità esecuzioni strumentali e narrazioni da tutto il mondo, con particolare attenzione per le periferie e le valli Calchaquíes dove più frequentamente era riuscito a condividere la sua arte. Nei suoi recital ha saputo includere danze e poesia che raccontano il mondo rurale e le vicende del XX secolo, come “La pobrecita” di Atahualpa Yupanqui o la milonga “Canción sin verano” di Tata Cedrón si versi di Julio Cortázar. Tra il 2003 e il 2015 era stato l’ambasciatore dell'Argentina all’UNESCO, protagonista di un orizzonte di speranza profondamente attento alla giustizia sociale: “Bisogna inventare un nuovo umanesimo nel XXI secolo. La maggior parte dei politici di oggi non ha tempo per quella che i greci chiamavano contemplazione, non del cielo stellato o del bel mare, ma per contemplare la società e sentire il polso della società, con le sue frustrazioni e le sue speranze”. 


Alessio Surian

Posta un commento

Nuova Vecchia