The Good Ones – Rwanda…you see ghosts, I see sky (Six Degrees Records, 2022)

La vena narrativa dei ruandesi The Good Ones continua a sgorgare e ci offre il quarto album in dodici anni, registrato e prodotto da Ian Brennan. Il titolo, come sempre, sottolinea la capacità del gruppo di guardare alla dimensione vitale dell’esperienza umana in generale e del Rwanda in particolare, descritta come casa comune nel secondo disco e come luogo da amare nella penultima uscita. Dopo la morte di Stanislas Hitimani, i due album più recenti sono stati registrati in trio dal vivo a casa di Adrien Kazigira, con Janvier Havugimana e Javan Mahoro. Se il registro principale del gruppo è quello della voce solista che dialoga col coro, accompagnati dalla chitarra acustica, l’ascolto di “Beloved (As the Clouds Move West, We Think of You)”, dal nuovo album, restituisce immediatamente lo spirito e l’affiatamento del gruppo che qui diventa letteralmente una sola voce, sospinta da un oliato poliritmo cui si aggiungono poco a poco diversi colori percussivi, in sintonia col contesto informale e rurale da cui prendono ispirazione e forma le loro canzoni, capaci di raccontare le ferite e l’umanità del Rwanda. Ne abbiamo parlato con Marilena Umuhoza Delli – regista, fotografa, scrittrice (“Negretta: Baci Razzisti”) - che dal 2009, insieme al suo, compagno, il produttore Ian Brennan, ha seguito e documentato il loro percorso musicale.

Come avete conosciuto Adrien Kazigira, Janvier Havugimana e Stanislas Hitimani e come è nata la loro collaborazione con te e Ian Brennan?
La nostra vita e quella dei The Good Ones si sono intrecciate per la prima volta nel 2009, ma in realtà – nel quadro della tragedia ruandese – condividiamo una storia che risale al 1959, prima ancora della nostra nascita. Le loro mogli e i loro bambini sono come una famiglia per noi. 
È stato un onore e un privilegio poterli conoscere e raccontare le loro storie attraverso la loro musica. Stavo girando un documentario (“Rwanda’ Mama”) sul ritorno in Ruanda di mia madre, dopo 30 anni di assenza. Il troppo dolore per la perdita dei suoi cari —brutalmente assassinati durante i genocidi del 1959 e 1973— e degli amici —sterminati in quello del 1994— l’aveva tenuta lontana da una terra in cui credeva di non avere più nessuno. Solo dopo aver scoperto che la sua migliore amica era sopravvissuta, anni e anni dopo, si decise a tornare in Ruanda. Ho deciso di documentare quell’amica ritrovata e l’esperienza straordinaria del suo ritorno in una terra completamente cambiata. Ian Brennan e io avevamo speso due settimane in cerca di artisti locali da registrare prima di incontrare Adrien, Janvier e Stani. È stato un incontro che ricorderò per sempre: fu proprio grazie all’amica di mia madre che li conoscemmo. Sono contadini e vivono senza acqua corrente né elettricità. Suonano come forma di intrattenimento, specie alla sera (al posto della televisione): una tradizione folcloristica tradizionale allo stato puro. Adrien viene da una regione ruandese conosciuta per aver prodotto poeti che lavoravano alla corte reale. Li registrammo dal tramonto alla notte nel cortile della sua casa, la capanna in cui è nato e ha vissuto per tutta la vita.  Con l'album del loro debutto, "Kigali Y' Izahabu", sono diventati il primo gruppo a pubblicare a livello internazionale un disco completamente in lingua Kinyarwanda. Quell’album, senza alcuna sovra-incisione, il primissimo a cui lavorai insieme a Ian, segnò l’inizio di una splendida collaborazione e amicizia con The Good Ones, un trio che ingloba le tre tribù ruandesi —Hutu, Tutsi e Twa. 
Hanno sempre avuto un sound e uno stile molto definito. Col tempo, nei tre album seguenti, non ha fatto che svilupparsi e approfondirsi ulteriormente.

Preparando il quarto disco avete registrato 31 brani e ne avete selezionati 13: com'è avvenuta questa scelta?
Le canzoni tendono a scegliersi da sole. Durante il processo di registrazione accade che spesso alcune performance si distinguano di più rispetto ad altre —quando si registra all’esterno, a volte è la natura stessa a intervenire (il vento, un volo di uccelli, un temporale…) e alla fine emerge un tema.

Il brano che apre il nuovo album affronta le "tenebre", i conflitti e i genocidi che per 35 anni hanno avvelenato i rapporti fra i cittadini del Ruanda: che cosa racconta? Questi lutti hanno colpito anche te e la tua famiglia: ci aiuti a contestualizzarli?
“The Darkness Has Passed (Genocide 1959-1994)” è una canzone che ricorda i genocidi della storia rwandese, inclusi quelli del 1959 e del 1973, dimenticati dalla stampa internazionale, gli stessi in cui mia madre perse l’intera famiglia. Il villaggio di mia mamma si trova sul Lago Kivu, in una delle aree più colpite dai massacri, e nel 1959, quando aveva solo 7 anni, le milizie Hutu incendiarono la casa e il bestiame, oltre a massacrare e stuprare parte dei suoi familiari. Il resto di loro fu sterminato nel 1973. Nel 1994 perse tutto ciò che le rimaneva, gli amici. Quella del Ruanda è una storia molto complessa. Le tre tribù Hutu, Tutsi e Twa avevano convissuto pacificamente per secoli prima che gli ex coloni Belgi
favorissero prima i Tutsi e poi gli Hutu, mettendoli gli uni contro gli altri. Furono loro a introdurre nel 1933 carte d’identità che distinguessero le tre etnie in base a principi fisiognomici puramente soggettivi, fomentando un odio sfociato nei tre genocidi cantati dai The Good Ones. 

Il secondo brano è cupo, grazie anche al ricorso alla chitarra elettrica, e racconta le difficoltà che deve affrontare il figlio di Janvier Havugimana e la sua famiglia: qual è lo spirito di questa testimonianza e in che modo interroga chi l’ascolta in Ruanda e chi l'ascolta in Italia?
“My Son Has Special Needs, But There’s Nowhere for Him to Go” è un titolo che racchiude in sé una storia. La storia di una famiglia, quella di Janvier, che vive la disabilità del proprio figlio. Ovunque nel mondo, una persona disabile si trova di fronte a enormi difficoltà, e nel caso del figlio di Janvier a ciò si aggiunge un sistema sociosanitario che penalizza le persone come lui, con gravi problemi economici. Quello della disabilità è un tema con cui ho una certa familiarità perché sono cresciuta con una mamma che a cinque anni fu rapita dagli ex coloni Belgi – insieme a tantissimi altri bambini ruandesi usati come cavie – che su di lei testarono il vaccino della poliomielite che finì per contrarre. Da allora non ha mai smesso di zoppicare e col tempo le sue condizioni si sono aggravate fino a costringerla a usare le stampelle e un tutore per la gamba malata.

Molti versi incoraggiano il rispetto, la fratellanza, il perdono: si sta affermando questa "cultura" in Ruanda? come?
I membri del gruppo sono tutti dei sopravvissuti al genocidio. Lo sterminio del 1994 ha causato perdite enormi per il Paese. Su una popolazione di 7.300.000 abitanti, di cui l’84% Hutu, il 15% Tutsi e l’1% Twa, le cifre ufficiali diffuse dal governo ruandese parlano di 1.174.000 vittime in soli 100 giorni. Il 20% circa è di etnia Hutu. I Tutsi sopravvissuti sono stimati in 300.000. Migliaia le vedove, molte stuprate e diventate sieropositive, 400.000 i bambini rimasti orfani, 85.000 dei quali diventati capifamiglia. I pianificatori di tale genocidio sono circa 20.000, 250.000 i carnefici e altre 250.000 le persone implicate nel genocidio. Nel novembre del 1994 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha creato il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, con sede ad Arusha, in Tanzania. Ma nel 2000, di fronte all’impossibilità di sottoporre a processo il gran numero di deputati imputati, sono stati istituiti i gacaca. Il governo ruandese ha cioè sviluppato un progetto di riconciliazione nazionale utilizzando strutture non strettamente giuridiche (i tribunali gacaca per l’appunto), ispirati alle corti locali tradizionali che risolvevano le controversie all’interno di villaggi o famiglie. Lo scopo è quello di uscire da un periodo di criminalità di massa, attraverso un confronto diretto tra vittime e carnefici, per favorire una riconciliazione attraverso la richiesta di perdono da parte dei colpevoli.

Quando e come avete coinvolto Daniel Carter?
Ian Brennan, produttore dell’album, ha una lunga storia con Daniel Carter —che è uno straordinario musicista di jazz moderno, sottostimato.  L’album precedente conteneva collaborazioni con artisti di spicco come TV on the Radio, Fugazi, Sleater-Kinney, My Bloody Valentine e Wilco. In questo disco, invece, ci siamo completamente focalizzati sulla band a eccezione di Daniel, il cui contributo ha superato ogni aspettativa con un pezzo che è tra le cose più eteree e liriche che abbia mai suonato.

L’album si chiude con un canto a più voci che invita a credere nell'amore: qual è lo spirito che vuole veicolare?
“Love Can Lead the Way” vuole trasmettere un messaggio importante: che non sempre l’amore è la forza trainante, però, può diventarlo.

Quale ascolto hanno trovato finora i lavori di The Good Ones e cosa auguri loro?
Nel corso degli anni, diverse persone ci hanno detto che i The Good Ones sono una delle loro band preferite. Insieme a loro siamo stati in tournée in Europa e Stati Uniti, sempre accolti con molto calore. Le loro canzoni dovrebbero raggiungere tutti, come quelle di qualsiasi musicista e cantautore di prim’ordine (da Jason Isbell a Lucinda Williams e Vic Chestnutt).



The Good Ones – Rwanda…you see ghosts, I see sky (Six Degrees Records, 2022)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

Dieci canzoni del nuovo album sono composizioni del chitarrista e cantante Adrien Kazigira, cui si aggiungono tre canzoni opera di Javan Mahoro (voce, cori, percussioni e chitarra) e Janvier Havugimana (cori e percussioni). A lui si devono due testi che partono dall’esperienza personale per interrogare la coscienza collettiva. “My Son Has Special Needs, But There’s Nowhere for Him to Go”, il secondo brano dell’album, condivide la difficoltà della sua famiglia, con limitati mezzi economici, nel tentativo di rispondere alle esigenze del figlio disabile, di fronte ad un sistema sociosanitario elitario. Nel finale, propone il brano “My Brother, Your Murder Has Left A Hole In Our Hearts [We Hope We Can Meet Again One Day]” che da voce a lutto personale e collettivo che attraversa tutto il paese, con troppe vite che sono state spezzate dalla violenza di altri esseri umani.  Il nuovo disco parla proprio di questo ed è uscito la prima settimana di aprile, in occasione della giornata della memoria in onore delle vittime del genocidio in Ruanda (7 aprile), così come ricorda il brano di apertura “The Darkness Has Passed (Genocide 1959-1994)” che mette l’accento già nel titolo sugli oltre tre decenni di violenze culminate con i massacri della metà degli anni Novanta. A metà scaletta, due brani, “Happiness is When We Are Together”, resa vivace dall’accompagnamento percussivo, e “Forgiveness Can Be Found” richiamano lo spirito di amicizia e di capacità di perdono che ha caratterizzato sin dal primo album il lavoro musicale e poetico di The Good Ones e che viene sintetizzato nella canzone che chiude il disco “Love Can Lead the Way”, con un testo attento agli aspetti distruttivi, così come a quelli collaborativi, di cura e di affetto delle relazioni umane.  Nel penultimo brano, “Berta, Please Sing A Love Song For Me”, la collaborazione si estende, a distanza, a Daniel Carter: la prova del sassofonista newyorkese è innanzitutto un contributo di ascolto e di personale interpretazione della capacità del gruppo di accogliere in modo corale la voce solista di Adrien Kazigira. Gli interventi del sassofono non vanno mai nella direzione dell’assolo e sanno proporre diverse cellule melodiche di sfondo e di risposta alle strofe cantate ricorrendo di volta in volta a brevi note staccate, a melodie in controcanto, a note di bordone che intersecano le voci del coro. Lo spirito di pace e di fratellanza non intacca lo sguardo ed il pensiero critico del gruppo che prende forma, per esempio, nel brano “I Dream Someday to Have a Home” di Javan Mahoro che da voce, accompagnato solo dagli arpeggi della sua chitarra, al suo non sopito desiderio di indipendenza. Dopo una vita di lavoro come servo domestico, domiciliato nella proprietà del suo padrone, a 44 anni cerca di immaginare le condizioni per poter vivere in un’abitazione indipendente: una profonda ingiustizia sociale veicolata con un canto che nei toni sa rimanere dolce e profondamente umano. https://the-good-ones.bandcamp.com/


Alessio Surian

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