Stephan Micus – Winter’s End (ECM/Ducale, 2021)

Immergersi nel complesso ed articolato universo sonoro di Stephan Micus significa vivere una esperienza unica alla scoperta della sua peculiare visione dei suoni del mondo, nella quale la profonda conoscenza di musiche e culture differenti si accompagna alla straordinaria capacità di rileggerle attraverso un approccio non convenzionale e certamente non filologico. Dopo aver debuttato nel 1976 con “Arhaic Concerts” sulla scia della Kosmische Musik, il musicista tedesco ha intrapreso lo studio di numerosi strumenti tradizionali acustici, provenienti da diverse parti del mondo e, pian piano, ha iniziato ad esplorarne nuove potenzialità espressive con l’utilizzo di tecniche del tutto inedite e facendoli dialogare con quelli moderni, anche con l’utilizzo di metodi di registrazione multitraccia. La sua originale cifra stilistica, combinata ad un alto spessore compositivo gli ha consentito di approdare, alla fine degli anni Settata, alla ECM di Manfred Eicher e da allora, con cadenza più o meno biennale, ha dato alle stampe ventitré dischi. “Winter’s End”, il nuovo album, come i precedenti, ha preso vita nel suo studio casalingo, e lo vede esprimere in piena libertà la sua verve creativa, destreggiandosi tra undici strumenti diversi, provenienti da dieci paesi. In particolare, spicca l’inedito utilizzo in sette brani del chikulo, un monumentale xilofono basso del Mozambico, appartenente alla famiglia dei timbila, costruiti da tasti in legno montati su zucche svuotate, utilizzate come cassa di risonanza. Altra novità è rappresentata da un tamburo dell’Africa Centrale della famiglia dei tongue drum, costruito da lui stesso, oltre quarant’anni fa, intagliando una scatola di legno. Accanto a questi troviamo, inoltre, flauti come il nohkan giapponese, suling balinese e nay egiziano, il sinding (arpa della tradizione gambiana), il sattar (cordofono cinese suonato con l’archetto), ma anche kalimba, charango e una chitarra acustica dodici corde. L’ascolto è, dunque, un fascinoso viaggio alla scoperta di suoni e timbri unici, come sottolinea lo stesso musicista tedesco: “mescolare degli strumenti insieme per la prima volta è affascinante, è come esplorare luoghi mai visitati prima da nessuno. La cosa sorprendente è che puoi prendere strumenti da tutto il mondo e suonano comunque in armonia. È un messaggio bellissimo, anche considerando che noi esseri umani non siamo ancora arrivati a questo punto”. Le strutture compositive seguono traiettorie imprevedibili e sorprendenti, con soluzioni armoniche e melodiche insolite che ci conducono attraverso ambientazioni sonore di grande suggestione. Ad aprire il disco è la sognante “Autumn Hymn” con il chikulo che dialoga con il nohkan, a cui segue “Walking in snow” eseguita alla chitarra dodici corde ed ispirata ai versi del poeta Murakami Kija riportati nel booklet. Se in “The login of the migrant birds”, Micus sperimenta la polifonia con le sovraincisioni di quattordici tracce della sua voce che canta in una lingua investata e il tongue drum ad evocare i poliritmi africani, la successiva “Baobab dance” è un danzante architettura di suoni costruita con kalimba, chikulo e sinding. La suggestiva “Southern stars” ci proietta verso una dimensione siderale con flauto e cordofoni ad evocare le notti stellate dell’Africa. Si prosegue con l’invocazione alla Grande Madre di “Black Mother”, mentre “A new light” ci conduce ai suoni balcanici, ma è solo un momento perché “Companions” con le sue atmosfere invernali ci schiude le porte a “Oh chikulo” nella quale echeggiano antiche e misteriose musiche cerimoniali. “Sun dance” riporta al centro della scena la polifonia ma è con “Walkin in sand” che si tocca il vertice compositivo del disco prima che arrivi il finale con la splendida “Winter Hymn” con il flauto ad impreziosire la struttura melodica. Un disco prezioso e da non perdere, soprattutto per quanti si avvicinano per la prima volta all’opera di Stephan Micus. E’, infatti l’occasione giusta per scoprire la sua straordinaria poetica, compendiando in undici brani il suo immaginario ispirativo. 


Salvatore Esposito

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