Roberto Michelangelo Giordi – Aliene sembianze (Maremosso, 2022)

Quarto capitolo discografico per Roberto Michelangelo Giordi, che, dopo aver centrato (con “Il sogno di Partenope”) la cinquina del Tenco come miglior interprete, torna a pubblicare un album di inediti. “Aliene sembianze”, questo il titolo, prosegue nel solco tracciato dai precedenti “Il soffio” e “Les amants de Magritte”, raccontando di un mondo che ha perso la rotta, in balìa di ordalie consumiste e di distorsioni dell’informazione. Prima di andare più nello specifico, è interessante aggiungere che ci troviamo all’ascolto di un lavoro non solamente musicale: al disco si affianca, infatti, un libro omonimo, i cui protagonisti si intrecciano perfettamente con i personaggi che animano le canzoni. Album (realizzato anche grazie al contributo fondamentale di, fra gli altri, Alessandro Hellmann, Franco Giacoia, Lino Cannavacciuolo, Mimmo Maglionico e, in veste di produttore, Piero De Asmundis) aperto dagli arpeggi languidi di “Spazio e tempo”, brano che dei synth siderali colorano di soffuse venature elettroniche, con una sinuosa linea di basso ad amalgamare il tutto. Anche “Gare de Lyon” si snoda lungo le trame arpeggianti di un mandolino, addolcito dalle vette scalate da una sezione fiati e dagli accordi distillati da un pianoforte. A segnare “L’oltreuomo” (“L’oltreuomo ha fatto/ i conti col destino/ Algoritmo e robotica,/ esporta ora la nuova civiltà”) ci pensano i nervi ritmici scatenati dalle percussioni, mentre lo strumming furioso di una chitarra a dodici corde fa da contraltare alle aperture create dai fiati e dal pianoforte. “Le nom” è un intenso recitato in francese, che annega fra una collosa palude di elettronica e dei viscosi fraseggi di chitarra elettrica. La title- track è una elegante ballata, che gioca sui colori tenui dipinti da un acquoso pianoforte e sulle trame tessute da un oboe cristallino. A seguire troviamo la gentile eleganza di “Mio amor” (“Mio amor,/ ma che sarà, ma che sarà/ delle infinite/ notti bianche?”), episodio in cui i fraseggi degli archi ed i volteggi di un flauto regalano imprevedibilità agli arpeggi di pianoforte ed alla raffinatezza dell’arpa. “Io pettino le bambole” (“C’è chi piscia tra la gente come fanno alla TV/ C’è chi vota a cazzo perché un cazzo proprio non l’ha più/ C’è chi vince solo perché ha un sogno in cui affogare”) è uno dei passaggi migliori dell’intero album, fra tensioni elettroniche, psichedelie metriche ed elettriche acidità chitarristiche. A scandire “25 Aprile” (“Io sono unico,/ eternamente in pace,/ io sono un uomo si,/ sono muto,/ sono la libertà”) ci pensa un pattern ritmico, sottolineato dagli ostinati della sezione archi, con gli arpeggi del pianoforte a creare un largo contraltare atmosferico. “Il tutto e il niente” (“Sono pazzo la dinamite ce l’ho/ per farmi esplodere nel sole./ Sono in bilico dalla notte dei tempi/ ed il mio sguardo non è dettato dalla mia mente”) si lascia attraversare dallo strumming ostinatamente jazzato di una chitarra acustica, con la sezione fiati che apre squarci di funky, evidenzianti da una linea di basso coloratissima e vorticosa. “Chant à la lune”, secondo passaggio in francese del lavoro, gioca sui ricami crepuscolari tessuti da archi e fiati, che scortano i malinconici arpeggi della chitarra e le note umide del pianoforte. Anche “Umane sembianze” (“Quante sono le storie/ di queste anime nere/ che inseguono il destino/ della borghesia Qualcuno ad occidente/ li vuole ancora schiavi/ illusi dall’inganno/ di oscure libertà”) segue nuances cupe e malinconiche, in cui un’elettronica grattugiata disturba i languidi arpeggi di pianoforte, con gli strazianti fraseggi di un violino a scalare il sabbioso pattern ritmico tessuto dalle percussioni. Tutt’altro clima, invece, su “La nuova Atlantide” (“E chissà com’è accaduto, perché tutto è finito,/ l’umanità è sparita, non è tornata più./ A noi rimane il mito di questa grande storia, /bellezza e memoria, la nuova Atlantide”), che gioca su una ben riuscita commistione fra l’elettronica della drum- machine ed i briosi arpeggi di chitarra e pianoforte, in un pezzo rinfrescato dagli splendidi controcanti di Emilia Zamuner e dalle aperture strumentali degli archi. A chiudere il lavoro ci pensa “La porta dei sogni”, accompagnata solamente da un raffinato e toccante pianoforte. In ultima analisi, Giordi traccia una lucidissima analisi del presente, lo fa con un linguaggio- tanto quello letterario, quanto quello musicale- elegante e raffinato, con quattordici tracce dal sapore antico, fra parole cesellate ed attenzione musicale. Un disco quasi anacronistico, ed è un complimento. 


Giuseppe Provenzano

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