Marco Ongaro – Solitari (Vrec/Andromeda Relix, 2022)

“Solitari” è una parola evocativa e ambigua, perché comprende in sé molti significati; ma del resto e a ben vedere, risulta ambiguo ogni aspetto della vita ed è questa una verità che si percepisce appieno solo col passare degli anni, così come solo col tempo si percepisce che ogni ritorno comprende in sé anche il senso dell’andata e le ragioni di una fuga. E quindi va riconosciuto immediatamente al cantautore veronese Marco Ongaro di aver saputo trovare un titolo davvero azzeccato per l’undicesimo album da studio, un titolo che sintetizza – in modo paradossale - il “concept” unico di un disco che aspira ad averne tanti. Per renderla meno complicata, siamo di fronte a canzoni che seguono ognuna la propria strada e il proprio senso, senza la pretesa del tema di fondo. Sono pezzi unici e “solitari”, appunto, e sono anche solitari come magnifici brillanti che non si perdono in una vera, insieme ad altri, ma risplendono magnificamente, soli, su dita di donna affusolate e ben curate. E poi sono anche pezzi di vita e di idee e di emozioni di un’anima solitaria. Perché le persone nascono in tanti modi: c’è chi nasce pensandosi parte di un tutto, confrontando da sempre e per sempre ogni scelta con l’altro (e l’altro può essere la madre, il fratello, gli amici, i colleghi, l’amante: non importa, purché l’altro sia) e c’è chi nasce invece solo, pur vivendo ogni momento in mezzo a tanti. Perché se siamo parte di un tutto – e lo siamo – c’è chi vede sempre il tutto e chi vede sempre la parte. E infine sono pezzi solitari perché ogni pensiero, sentimento, interazione, scelta, attesa, disperanza, possibilità ha un suo tempo e un suo spazio nella vita: le canzoni d’autore in fondo non fanno che raccontare questi pensieri, sentimenti, eccetera, ma uno alla volta. È lo “stile” dell’autore – come sempre in Ongaro riconoscibilissimo, unico, raro (solitario), ironico, elegante, poeticamente colto, disincantato e perennemente innamorato – il collante di questo disco di fattura superiore. Di album ne escono tanti; sono spesso (non sempre a dire il vero) ben fatti, ben concepiti, ben studiati, ben allineati. Sono dignitosi, meritevoli di ogni rispetto. Ma quando esce un lavoro di uno come Marco Ongaro si tira un sospiro di sollievo. I dischi di qualità si fanno così, si pensano, ci si mette anche coraggio e sfrontatezza, ci si mette capacità autorale alla massima potenza, ci si mette ispirazione, ci si mette azzardo. Ci si mette poesia nel senso più alto del termine. E ci si mettono anche degli arrangiamenti e un’idea di suono adatti. Questo disco, infatti, prodotto da Gandalf Boschini e arrangiato da Luca Sanmartin, vede la collaborazione, tra gli altri, del gruppo prog-rock dei Logos, e si sente eccome, perché il suono che ne deriva esalta la vocazione rock di Ongaro e non diventa un semplice strumento di accompagnamento, come spesso accade. No: queste sono proprio canzoni e non potrebbero diventare altro. E Ongaro, che è uno scrittore, un autore teatrale, un traduttore, uno che insomma con le parole può fare quello che vuole, ne è consapevole pienamente. Era proprio quello che voleva e si capisce, perché canta libero, anche con una certa aria sfrontata che risulta all’ascolto deliziosa. Difficile in una breve recensione entrare nel merito dei tanti temi affrontati, anche perché quando si incontrano i poeti quello che conta non è tanto capire il senso, quanto intuirne – sempre – le melodie intrinseche al verso e qualche (rara) volta saperne inquadrare le armonie. Vi è però – a parere di chi scrive – qualcosa che ricorre e che ci fa fare un passo indietro rispetto al titolo. Dicevamo che non c’è ritorno che non ricomprenda il significato interiore dell’andata e che ogni gesto ricomprende anche il suo contrario; ogni scelta ricomprende lo scarto e ogni attesa, anche quella vana, ricomprende un arrivo. Ecco: in questo album c’è molto il senso della vita: ci sono i solitari come gocce d’acqua che però fanno parte di un oceano, c’è il seme che diventa pianta, c’è il tempo che passa e che pur non esistendo segue certe regole. C’è che ogni finzione ricomprende una verità e che ogni volta che si riavvolge un nastro, il nastro ripartirà. Canzoni che sono quindi un po’ come simbolici segni dell’I Ching, antico libro di saggezza cinese (A ritroso, L’attesa, Solitari, Ricominciando, Rimasta qui), o più semplicemente riflettono le consapevolezze di un artista ispirato, intelligente e maturo. Bella la traduzione de La Canzone di Prévert di Serge Gainsbourg (Ongaro ha recentemente pubblicato un interessante volume dal titolo “Un poeta può nasconderne un altro, il senso per la parola di Serge Gainsbourg”) e soprattutto della mitica “Homburg” dei Procul Harum. Quella delle versioni italiane di pezzi di grandi artisti è un’altra arte sopraffina in cui è specialista Marco Ongaro e che speriamo continui sempre a coltivare. 


Elisabetta Malantrucco

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