Otto album essenziali per ricordare Ron Miles

Il compositore, cornettista e trombettista Ron Miles è morto l’8 marzo ad appena 58 anni, al culmine di un’esemplare percorso che ha lasciato relativamente pochi album (dodici a suo nome in quasi quarant’anni di attività), ma tutti di ottimo livello, con magnifiche intuizioni e sodalizi, a riprova del fatto che non di sola New York vive il jazz. Cosa pensasse Ron Miles della Grande Mela, in cui aveva vissuto un anno frequentando la Manhattan School of Music, lo dicono il titolo del suo album di debutto (1986) “Distance Is Safety” e soprattutto il brano “New York Is Not America”. A New York aveva preferito il Colorado e la sua Denver, le collaborazioni con chi lì ha radici, a partire dal chitarrista Bill Frisell e dal l batterista Rudy Royston, e con un ristretto gruppo di musicisti: i sassofonisti Fred Hess e Mark Harris, il bassista Mark Simon, il pianista Art Lande. Con Frisell la collaborazione aveva preso forma a metà degli anni Novanta con “Quartet” e li aveva visti insieme a Elvis Costello e Burt Bacharach in “The Sweetest Punch” (1999).
Quasi vent’anni fa aveva cominciato a privilegiare la cornetta rispetto alla tromba e con Frisell e il batterista Brian Blade aveva formato dal 2011 un formidabile trio poi allargatosi a quintetto col pianista Jason Moran e il bassista Thomas Morgan. Ma le collaborazioni includevano anche Myra Melford, Joshua Redman, Matt Wilson, Jenny Scheinman, Ben Goldberg, e Mary Halvorson (insieme a Jason Moran avevano registrato nel 2016 “Bangs”). Negli ultimi due anni si era segnalato per l’album Blue Note “Rainbow Sign” e per aver riaperto a Manhattan il Village Vanguard a Settembre del 2021, in entrambi i casi col quintetto. Sempre col quintetto, avrebbe dovuto partecipare al Big Ears festival a Knoxville (Tennessee): il 25 marzo Moran, Frisell, Morgan e Blade suoneranno un programma interamente dedicato alle sue composizioni. Il suo timbro rimarrà inconfondibile, inventiva e sempre nitida la sua abilità nell’articolare frasi e melodie 

“Mind Police” apre “Distance from Safety”, l’album del debutto nel 1987, in compagnia del bassista Mark Simon e del batterista Mark Fuller


“Witness”, registrato a gennaio del 1989, allarga l’organico che ora include Ken Walker al basso, Bruno Carr alla batteria, Art Lande al piano, e il sax tenore e il flauto di Fred Hess.

 
Solo a metà degli anni Novanta, nel 1996, Ron Miles torna a pubblicare, di nuovo in trio, con il basso di Artie Moore e soprattutto con la batteria di Rudy Royston, uno dei punti fermi delle sue collaborazioni musicali. Il risultato è “My Cruel Heart”


L’anno successivo è la volta di “Women’s Day” con un gruppo numeroso e una paletta sonora che permette di esprimere l’arte di Miles di creare transizioni sonore che collegano emozioni anche molto distanti fra loro. Gli interpreti sono Royston,  Artie Moore o Kent McLagen al basso, Eric Gunnison al piano, Mark Harris al clarinetto basso e le chitarre di Bill Frisell e Todd Ayers.


Settembre 2011: “Quiver” suggella uno dei migliori trii dell’ultimo decennio: Brian Blades raggiunge Miles e Frisell e il risultato è “sublime” (NPR).


“Circuit Rider”, registrato a fine 2013 rende palpabile che l’evidente telepatia fra Miles e Frisell sembra estendersi a Blades, si tratti delle composizioni di Miles o delle splendide interpretazioni di brani di Giuffre e Mingus. 


“I am a Man”, pubblicato nel 2017, consolida un quintetto d’eccezione: accanto alla chitarra di Frisell e alla batteria, Blades, ci sono il basso, di Thomas Morgan e il piano di Jason Moran, un quintetto capace di percorrere strade sempre diverse e con tre brani intorno ai dieci minuti.


“Rainbow Sign” (2020) conferma lo stato di grazia del quintetto e di Miles come compositore, autore di tutti e nove i brani, il suo ultimo canto.


Alessio Surian

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