Okiees & Pippo Delbono – Rageen Vol.1 (Edizioni Kappabit, 2021)

È un progetto decisamente ambizioso, quello che gli Okiees, collettivo catanese formato da Andrea Rabbito (voce e chitarra), Adriano Murania (violino) e Simone Liotta (tastiere ed elettronica) e l’attore Pippo Delbono portano a compimento nel loro “Rageen vol.1”, primo capitolo di una trilogia che, nel suo snodarsi fra musica, teatro, letteratura, arti figurative e cinema, abbraccia nel senso più stretto il concetto di transmedialità. Al disco, che porta già nel nome i segni distintivi del suo andamento, con la geniale crasi fra “rage” e “spleen”, si affiancano, infatti, un libro ed un film, girato con un uso pazzesco del found footage, di cui le tracce dell’album sono, ovviamente, colonna sonora. È notevole, e lo diciamo fin da subito, l’effetto complessivo di questo gioco di intrecci artistici, che riesce splendidamente ad armare il disco di una spessissima densità espressiva, unita ad una necessità comunicativa che sgorga come lava incandescente. Spettacolare anche il contrasto fra il recitato di Delbono, a tratti flemmatico e biascicato, ed il cantato di Rabbito, col suo graffiato che è sale sulle ferite aperte. A livello musicale, parlando dei singoli episodi dell’album, ci troviamo di fronte all’ennesima prova di paesologia musicale: ogni arrangiamento, ogni dinamica, corrispondono perfettamente alle sensazioni descritte dal film. Lavoro, quello sonoro, che si muove lungo le trame ritmiche disegnate dalla chitarra classica, con tastiere e sintetizzatori ad affrescare paesaggi sonori e le svisature del violino ad accoltellare ogni possibile stasi. Esemplare, in questo caso, è “Move on this movie”, in cui gli ostinati ritmici che contrappuntano gli arpeggi di chitarra fanno da vero e proprio generatore di tensione del pezzo. Molto interessante anche “April in stop”, in cui l’intreccio fra chitarra e violino si risolve in un intenso scambio fra lo strumming tempestoso della prima ed i ricami nevrotici del secondo. Su “I was dreaming of you” il violino si limita ad allargare l’atmosfera del brano, mentre un piovoso pianoforte ed una malinconica chitarra si occupano di sostenere ritmica ed accompagnamento. Altro passaggio con le nevrosi a fior di pelle è “You get your rope”, in cui una incessante chitarra - che quasi si sostituisce al basso - anima ritmicamente il tutto, con i fraseggi del violino a tendere ulteriormente l’atmosfera. Da segnalare, in questo caso, anche il perfetto incastro vocale fra il timbro ruvido di Rabbito e quello, più dolce, di Serena Anzaldi. Anche su “Dawn” a risaltare è la fortissima carica immaginifica degli arrangiamenti: la canzone è totalmente immersa negli arpeggi paludosi della chitarra, da cui tenta dolorosamente di uscire aggrappandosi ai fraseggi strazianti del violino. “Inner odissey” si snoda lungo le trame di una dinamica che cresce in modo quasi monolitico, con arpeggi di chitarra e pizzicati di violino che diventano, rispettivamente, furioso strumming e disperati ostinati, per placarsi nuovamente solo verso la fine. “Long walk in the desert” è uno degli episodi più interessanti dell’intero lavoro, soprattutto nel passaggio segnato dallo strumming in palm- muting, scheletrico, sabbioso ed ossuto come titolo vuole. “Burn” si appoggia ritmicamente sulla chitarra, col violino a ricamare fraseggi incendiari, che gli interventi dei sintetizzatori cercano di smorzare. Su “Sometime” ritorna una dinamica già ricorrente in molti dei pezzi del disco, con un crescendo ritmico innervosito dalle svisature del violino, che, in questo caso, poggiano su un languido tappeto di synth. “Love the prisoners you have got” segue le trame di un polveroso blues, squarciato dalle incursioni delle tastiere e dagli interventi scapigliati del violino. A chiudere il lavoro ci pensa “Epilogue/ Is this the end?”, in cui i pizzicati del violino ed i fraseggi acquosi delle tastiere soffocano ulteriormente una chitarra asfissiante e sofferente. Splendida anche l’atmosfera musicale che racconta tutte le parti recitate da Delbono, con spire ventose a soffiare su ogni singola parola, a farla volare e perdere attraverso mille nebbie. Una operazione che scava nelle viscere dell’animo umano, lo fa attraverso gli scambi fra i due protagonisti del racconto, Roger Benjamin e Benjamin Rye, attraverso il loro rapporto di odio ed amore, che diventa vademecum per raccontare i perdenti, gli ultimi, tutti i “diversi”, in un percorso catabatico fra ombre e margini della società. In definitiva, un lavoro enorme. 


Giuseppe Provenzano

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