Febbraio ha registrato il ritorno dei “taiko”, i tamburi giapponesi, sui palchi di Roma, Milano e Firenze con Kodō e su quelli veneziani con il Trio Munedaiko dei fratelli Mugen, Naomitsu e Tokinari Yahiro, protagonisti di una masterclass e del concerto al Conservatorio “B. Marcello”, organizzato con l’Accademia Belle Arti, la Fondazione Ugo e Olga Levi e l’Università Ca’ Foscari nell’ambito del festival “The Aesthetics of Emptiness” dedicato all’arte contemporanea giapponese. Alla masterclass e al concerto ha collaborato anche l’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della Fondazione Cini che li ha video registrati.
Fondato nel 2014 da Mugen Yahiro, il Trio Munedaiko si inserisce nel vasto ambito delle musiche percussive giapponesi “wadaiko” e, in particolare, al genere cui ha dato vita il percussionista Daihachi Oguchi nel 1951, arrangiando e componendo per “kumi-daiko”, ensemble di tamburi, a cominciare dal gruppo Osuwa Daiko. Dagli anni Sessanta sono conosciuti anche all’estero grazie alla partecipazione alle Olimpiadi del 1964, e ai tour di gruppi come Oedo Sukeroku Daiko, Ondekoza, Kodō. I taiko sono tamburi di legno ricavati da un unico tronco e risalgono probabilmente al periodo Jōmon (10.000 a.C. – 300 a.C).
Se ne trovano illustrazioni a partire dal periodo Kofun (250-538 d.C.) hanno avuto un proprio ruolo in epoca Heian (794-1185 d.C.) come musica di corte (gagaku), senza che questo abbia impedito la partecipazione alle feste popolari contadine (minzoku geinō). Rimane forte il legame con la spiritualità shintoista e con le arti teatrali come il Noh il Kabuki, dove ci si riferisce all’uso del taiko con il termine “goten geinō”. Il Trio Munedaiko è, al tempo stesso, un gruppo performativo e un gruppo di studio che si dedica alla pratica ed alla valorizzazione dei tamburi giapponesi, studiandone e innovandone i repertori, accostando tamburi e flauti di dimensioni e potenza sonora diversa. L’ampia gamma di suoni a disposizione, che comprende anche piccoli cimbali, la capacità di combinarli e amplificarli fra loro, l’intesa, telepatica e millimetrica mostrata dal vivo dai tre fratelli, rappresenta un ponte sonoro fra tradizioni di matrice orale, composizioni scritte e sviluppi contemporanei capaci di attingere da diverse anime ritmiche. In questo modo, con un’acuta sensibilità per le dinamiche ed il volume – dal silenzio al fortissimo – sanno evocare la dimensione del tempio, la musica sacra, kagura, in grado di chiamare le divinità shintoiste a partecipare alle cerimonie.
Ma sono anche in grado di attraversare e portare la propria creatività alle forme musicali legate alla corte imperiale, ai raduni popolari, al teatro, raggiungendo una potenza sonora capace di scacciare qualsiasi demone. In più di un’occasione è evidente l’estremo controllo sul suono, che permette di misurare la distanza fra “bordoni” scanditi su uno o due tamburi e variazioni che esprimono tutta la potenza del singolo tamburo o del dialogo fra due tamburi che, chiamati a far risuonare le stesse frequenze, invitano ad ascoltare la componente armonica che scaturisce dalle pelli e sembra rincorrere le note dei flauti shakuhachi o shinobue, magistralmente suonati da Tokinari Yahiro che li ha frequentati anche insieme al gruppo Ondekoza con cui ha suonato fra il 2016 e il 2019.
Più di uno sguardo è corso dalla platea, completa in ogni ordine di posti, ai numerosi lampadari dalla bella Sala concerti del Conservatorio, che ha retto perfettamente l’urto, memore del suo passato di salone da ballo.
Nel finale c’è stato anche tempo per un bis che ha coinvolto l’intera sala nello scandire un ritmo con le mani, all’unisono, a sostenere un canto di saluto intonato dal trio.
Alessio Surian
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