Ebo Krdum – Diversity (Supertraditional Records, 2021)

Nato nella regione occidentale sudanese del Darfur, Ebo Krdum vive Stoccolma, dove è arrivato nel 2010 a 21 anni come rifugiato per sfuggire alla persecuzione politica. Allo scoppio del conflitto nel 2003, infatti, Ebo era diventato una voce dell’opposizione alla corruzione e alla violenza del regime. Il suo impegno musicale, sociale e politico era stato ripagato con tortura ed espulsione dall’università. Musicalmente, aveva solo sei anni quando ha iniziato a cantare e a suonare il tamburo, a tredici ha imparato a suonare una chitarra fatta in casa. È cresciuto in un contesto multilingue, ascoltando alla radio principalmente musiche di area saheliana e del Nord Africa. Via etere si è formato con i pilastri del chitarrismo West African come Ali Farka Touré e Boubacar Traoré, più tardi ha appreso a suonare altri strumenti come gojo, ngoni, oud, tamboor e tastiera. Nel 2017, Ebo ha messo insieme la band di Stoccolma Genuine Mezziga, che ha pubblicato l’EP di debutto “Salam” nel 2019, premiato ai Folk and World Music Awards del Paese scandinavo. La band è ancora in circolazione, ma ora è la volta del suo primo album solista, “Diversity”, pubblicato dall’etichetta Supertraditional Records (nel ruolo di produttrice e arrangiatrice c’è Anna Möller, che canta e suona viola d’amore e violino) e presentato anche in un acclamato showcase diurno al WOMEX 2021 di Porto. Il lavoro porta un titolo emblematico che intende metter l’accento sulla convivenza nella diversità. Racconta Ebo che “il progetto include canzoni che ho scritto prima di fuggire da casa e alcune dopo che sono arrivato e mi sono stabilito in Svezia. Chiamo questo progetto: “I Jig sub-sahariani”. È anche il mio primo esperimento con la sezione di violino/corde nella mia musica”. Le liriche del cantautore, attore e attivista per i diritti umani, che in questo lavoro canta e suona chitarra e percussioni, raccontano il suo vissuto che, inevitabilmente, si raccorda a istanze politiche e sociali di libertà, pace, uguaglianza, di attacco ai matrimoni precoci, alla violenza di genere e alle mutilazioni genitali femminili. Ebo canta in otto lingue diverse (fulani, beri, fur, arabo sudanese, massara, beja, daju e inglese) ed è circondato da una pletora di musicisti tra i quali, oltre alla già citata produttrice, spicca il leggendario Ale Möller (flauti, mandola, fisarmonica e voce), uno dei padrini del nuovo folk svedese a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Al centro della scena c’è la voce di Ebo, assecondata da Sara Parkman (voce), Robin Cochrane (calabash, djembe, percussioni), Adam Grauman (basso, violoncello e viola da gamba), Anna Rubinsztein (viola d´amore), Mohamed Araki (tastiere), Linda Óst (voce), Anna Rubinszlein (viola d’amore e viola). Le coordinate sonore dell’album sono ben evidenti fin dalle note dell’irresistibile tema d’apertura, “Worbé è Rewbé”, impreziosito dal flauto di Möller. Cantata in fulani, la canzone è stata scritta in risposta all’instabilità dell’area sub-sahariana ed è un invito alla “responsabilità di tutti nei confronti della natura e del suolo che si coltiva”. Nella musica di Krdum confluiscono l’andamento ipnotico sub-sahariano e le suggestioni afro-beat e rock & soul di chi mette tra i molti ascolti di riferimento Amadou & Mariam, Alpha Blondy, Peter Tosh, Tracy Chapman e Fela Kuti. E poi ci sono le sfumature timbriche scandinave che si innestano sulla dolce energia canora del cantante. Avanza in levare ”Revolution call” (cantata in inglese), ispirata all’insurrezione sudanese contro il regime del 2018: un appello a fare fronte contro dittatura e corruzione. “Dabaywah” (“La pace duratura”), cantata in lingua beja, si basa su ritmo takamba che ben si adatta alle variazioni sul tempo di polska. L’ostinato del balafon dà impronta ad “Almanfa” (“Esilio”): qui, il tema è rinforzato dal basso, dagli intarsi degli archi e della antifonia solista-coro. La canzone, in lingua araba, è un altro bell’esempio delle sobrie ma corpose combinazioni di timbri e linguaggi sonori. Il call & response domina in “Órré togïn dogólá”, che è la rilettura di un canto tradizionale del Darfour in lingua fur, appreso dal repertorio della grande cantante Myrem Amou, scomparsa qualche anno fa. La canzone invita all’accettazione reciproca e alla coesistenza contro ogni forma di discriminazione. La convergenza di mondi culturali si esplicita in “Genyah”, brano dalle sfumature vagamente “celtiche”, che è eseguito in arabo-sudanese. È una canzone scritta durante la guerra nel Darfur sul bisogno di aiuto nelle crisi umanitarie, ma diviene anche un appello a un salvatore invisibile. Gli archi introducono “Selikai”, composizione che, poi, assume una fisionomia tipicamente afro-occidentale, con i cori cui fanno sponda le corde e gli archi. Sulla stessa linea nitida e amabile si pongono “Thaori” (“Rivoluzionario” in arabo-sudanese) e “Gânê ferelaye” (brano in massara sull’importanza di conservare il retaggio culturale in termini di terra, lingua e cultura). Invece, l’incedere bluesy della successiva “Aylé Konga”, che richiama nettamente l’insegnamento chitarristico di Ali Farka, ben si addice alle liriche in lingua fur che descrivono la nostalgia di casa, della natura e della propria terra. Arriviamo in fondo alla scaletta con i profili melodici modali che spirano ancora nella indolente e avvolgente “Diar Hanana”, il cui testo è “un ricordo dei vecchi regni e dell’unità tra le nazioni prima della colonizzazione e della separazione. È in lingua daju. Il Daju è uno dei più grandi gruppi dell'Africa centrale, il loro sultanato si estendeva dal Kush fino a Timbuktu. Oggi si trovano in Sudan, Ciad, Niger e Africa centrale”, racconta ancora Krdrum. Il troubadour sudanese-svedese si muove agilmente tra spunti diversi, tenendosi ben lontano dal suono patinato e producendo un album che mai smarrisce freschezza sonora e urgenza comunicativa. 


Ciro De Rosa

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