Robert Plant & Alison Krauss – Raise the Roof (Warner Music, 2021)

“Quattro (World Drift In)” dei Calexico è la traccia che apre la scaletta di “Raise the Roof” – secondo album della coppia Plant-Krauss – e subito ci spinge là dove solo le grandi voci sanno portarci: un orizzonte di preghiera e poesia, melodia, ritmo, andamenti vecchi e nuovi, armonie e visioni fondamentali della storia del blues e, in generale, del folk. L’album presenta una scaletta interessante sotto molti aspetti. Il primo è (probabilmente) legato ai nomi degli artisti e, più direttamente, al precedente “Raising Sand”, che Robert Plant e Alison Krauss hanno realizzato nel 2007, lasciando molti increduli e aggiudicandosi, nel 2009, il Grammy Award come miglior disco dell’anno e come miglior disco folk contemporaneo. Il secondo motivo è invece legato alla struttura dell’album. Difatti, come in questo “Raise the Roof”, la scaletta è composta da cover e, nel suo insieme, ha avuto almeno due grandi meriti. Da un lato l’aver condotto Robert Plant in un territorio musicale più vicino a quello della Krauss ed essere riuscito a dimostrare infondata la preoccupazione maggiore dei suoi fan, legata primariamente al fatto che che fosse troppo facile per la voce di Plant ricalcare certe armonie, già per loro “natura” esteticamente impeccabili. Dall’altro lato quell’album ha messo insieme capolavori della cultura cantautoriale americana, a cui i due artisti hanno dato un nuovo respiro e un fascino indubitabile, facendoli filtrare in un contesto più mainstream: da “Trampled Rose” di Tom Waits a “Sister Rosetta Goes Before Us” di Sam Phillips, fino a “Polly Come Home” di Gene Clark. Con “Raise the Roof” Plant e Krauss si affidano di nuovo alla produzione di T-Bone Burnett e tutto il flusso musicale delle quattordici tracce che compongono l’album confluisce nelle loro splendide voci. A cominciare, come si diceva prima, dal brano posto in apertura. Subito si comprende la forza di ciò che si sta ascoltando. Le voci sono all’unisono, si sorreggono l’una all’altra e non si può volere di più. Perché ogni cosa è al suo posto. Perfino i pochi strumenti di sottofondo (pochi e buoni, si deve aggiungere, perché tra i musicisti figurano grandi nomi: Bill Frisell, Marc Ribot, David Hidalgo, Buddy Miller, Jay Bellerose, Dennis Couch), si accodano, con straordinaria semplicità, al flusso vocale, consapevoli che tutto è già lì: tra la voce roca e potente di Robert Plant e quella cristallina e profonda di Alison Krauss, dentro la traiettoria di una scaletta di classici per estimatori, dentro una sorta di promessa da predestinati. La promessa della bellezza rinnovata, cioè la prova che la bellezza può rinnovarsi: dentro e fuori la tradizione e le forme “originali”, dentro e fuori i cori del revival ricercato e misurato, del senso di appartenenza, del senso perduto per sempre, che solo nella gentilezza pura dell’animo poetico può essere richiamato e di nuovo interpretato. In questo solco tutto si compone di grazia, armonia e coraggio, perché il retaggio di Plant - che, come sappiamo, si è spesso misurato con repertori più “etnici”, sia con i Band of Joy che con i Sensational Space Shifter - dialoga a meraviglia con l’immaginario della Krauss (straordinaria autrice, cantante e violinista), e la ricerca sulle melodie e le armonie apre di fatto un nuovo modo di vedere una fetta del patrimonio folk-blues internazionale. È inutile dire (a questo punto) che il contributo di T-Bone Burnett rappresenta il terzo vettore vincente dell’album. Ogni brano è stato ripensato e elaborato in una dimensione di sintesi e necessità, con poche note e pochi suoni, ma sempre fondamentali e curati. Il suono strumentale, per questo, risulta sempre morbido e fuori da ogni retorica: per averne alcune conferme sarà sufficiente soffermarsi su brani come “The Price of Love” degli Everly Brothers - organizzata con ritmi e atmosfere completamente diversi dall’originale - oppure “It Don’t Bother Me” di Bert Jansh e “Last Kind World Blues” di Geeshie Wiley. Tra i brani imperdibili - per dolcezza e profondità - non posso non citare “My Heart Would Know” di Hank Williams e la stupenda “Going Where the Lonely Go” di Merle Haggard. 


Daniele Cestellini

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