Da poche settimane le edizioni del Museo Pasqualino di Palermo hanno meritoriamente ripubblicato un denso saggio di Luigi Maria Lombardi Satriani, “Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura”, originariamente uscito nel 1973 per Guaraldi. Si tratta di un lavoro risoluto e apertamente polemico – integrato nel dibattito, marcatamente ideologico, di quegli anni – che prende le mosse da un posizionamento esplicito e radicale, “marxista” e “rivoluzionario”, come d’uso in tempi di “radiose utopie”. Tenuto conto di questo, il lavoro conserva valore, non solo all’interno della storia degli studi etno-antropologici, rispetto alla critica dei processi di “patrimonializzazione dell’immateriale”, rivelandosi ancora utile, e in certi casi addirittura profetico.
Ad esempio, mettendo in luce aspetti legati alla “commercializzazione” delle culture locali, destinata a consolidarsi come prassi progressivamente più invadente e vessatoria. In questo senso, appare particolarmente significativa la scrupolosa indagine, condotta nel capitolo “Tecniche di etnocidio”, sul “folk market”, cioè sulle strategie pubblicitarie con cui grandi aziende capitalistiche incorporano e sfruttano temi del “folklore” per promuovere merci di largo consumo, riportando una serie di casi emblematici, su cui spiccano diverse “storielle” intrise di localismo nostalgico e vernacolare (e di esaltazione del mondo contadino), confezionate per vendere un prodotto commerciale globale come la pasta. Insomma, si rievoca la cultura contadina – con le consuete retoriche del tipico, del genuino e dell’autentico – allo scopo di accrescere l’appetibilità di beni di consumo, la cui filiera è nei fatti di opposta matrice.
Segue la critica del rapporto fra “cultura tradizionale” e turismo, poggiando lo sguardo su quelle destinazioni marginali e “conservative”, che cominciavano proprio allora ad essere proposte a gente di città in cerca di evasione dalla realtà urbana e di esperienze alternative: al già affermato “esotico esterno”, oltre i confini nazionali, si giustappone dunque un “esotico interno”. Emergono le prassi di quel “marketing territoriale”, che sottopone le culture locali a una sorta di “plasmazione merceologica” – da alcuni perfino auspicata come antidoto alla scomparsa delle “tradizioni” – che continuano ad essere particolarmente controverse per ragioni di diversa natura, non da ultima il protagonismo assunto dalle amministrazioni locali.
Infine, mi paiono ulteriormente stimolanti i passaggi riferiti a quello snodo cruciale dei primi anni ’70, sul ruolo svolto da intellettuali “progressisti” rispetto al “folklore”, che spesso sfociava (e sfocia) in atteggiamenti meramente paternalistici, e su come in breve tempo l’industria culturale (e in particolare i discografici e le televisioni) avesse riassorbito anche le istanze più radicali della “contestazione” in logiche di tipo eminentemente commerciale. Viene riportato in proposito il gustoso ed emblematico aneddoto che vede protagonista uno degli “eroi” della stagione del folk revival, il noto cantastorie Ciccio Busacca, ingaggiato dalla Galbani per girare la Sicilia cantando le vicende di “un eroe, il cui nome, «naturalmente» dialettale, era derivato da quello della ditta stessa, Galbaliuni”, che “con la sua forza fermava i treni e compiva altre prodezze”, e “il cui vigore, ovviamente derivava dal consumo dei prodotti della ditta organizzatrice degli spettacoli”, al termine dei quali veniva distribuito un pupazzo con le fattezze dell’eroe.
Arricchiscono la nuova edizione una post-fazione di Ignazio E. Buttitta e una ampia introduzione di Letizia Bindi, la cui puntuale analisi coglie dell’originale riflessione i successivi sviluppi e le intuizioni anticipatorie.
In “Folklore e profitto”, sotto il dominio di un capitalismo liberistico sempre più aggressivo e pervasivo, non sembra esserci speranza per “tradizione” e “folklore”, stretti fra il rapido oblio dei propri mondi di riferimento e la irresistibile riplasmazione standardizzata ed edulcorata destinata a convergere nel ciclo del consumo globale. Pare di capire che, per Lombardi Satriani, senza un cambiamento radicale – e dunque rivoluzionario – dei rapporti sociali, la tradizione e il folklore siano inevitabilmente destinati ad “illanguidire”, fino a sparire, facendo eco alla visione pasoliniana di una “società dei consumi” che omologa e cancella le culture locali. Anche senza condividere la radicalità dell’analisi, occorre riconoscere come gran parte degli esiti paventati si siano successivamente realizzati, con l’ampia diffusione di percorsi di valorizzazione di patrimoni immateriali – spesso fortemente sostenuti anche economicamente dalle amministrazioni locali – in cui le finalità turistiche e commerciali hanno gradualmente prevalso (processo in qualche modo accelerato anche dalla corsa alle “nomine Unesco”). Da questo punto di vista, esemplare di come sia difficile sfuggire a un certo destino, anche per operazioni inizialmente promosse “dal basso” e con le migliori intenzioni, è la sorte del movimento salentino della “pizzica”, ormai in gran parte assorbito in dinamiche di sempre più spregiudicato marketing turistico e – in particolare col mega evento “identitario” della Notte della taranta – in logiche di spettacolarizzazione estrema banalizzanti e mercificatorie.
Rimane allora aperta una questione, oggi forse più decisiva di allora, sulla potenziale irreversibilità dei processi di mercificazione e di “illanguidimento”: c’è ancora spazio per un uso “progressivo” del “folklore” e della “tradizione”? E se sì come sostenere le comunità locali nel costruire percorsi di rigenerazione culturale e di riappropriazione, che siano anche capaci di contrastare l’impoverimento a cui spesso tali territori ricchi di “patrimoni” sembrano condannati, a partire dalla piaga dello spopolamento? Forse una risposta si può trovare nella conclusione del saggio introduttivo di Letizia Bindi, quando si sostiene che per “riabitare i luoghi e le forme espressive del mondo rurale”, bisognerebbe attivare “processi di partecipazione e di inclusione, di ritorno e rigenerazione come laboratori di nuova cittadinanza e vivibilità e come nuova narrazione critica e consapevole”. Insomma, riappropriarsi delle culture dei territori innanzitutto per viverci meglio e più consapevolmente, proponendole ai “visitatori” secondo logiche di sviluppo sostenibile. Senz’altro più semplice a dirsi che a farsi.
Vincenzo Santoro
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