Il padre di “Contessa”: Ricordando Paolo Pietrangeli

“Quella sega di Alessio Lega”
, “Come stai vecchio frocio? Ti stai rigirando in un letto di dolore?” (per la cronaca, si informava delle mie coliche renali), “Le tue canzoni sono belle, ma le presentazioni che fai in concerto sono mortali, quando parli mi fai davvero cacare… ti sopporto solo su disco”. Scusatemi. Se c’è una cosa che detesto sui social, è l’abitudine di celebrare gli artisti nell’imminenza della scomparsa, pubblicando foto che ci ritraggono con loro. Oppure anche riferire aneddoti (ormai inevitabilmente senza contraddittorio) nei quali in realtà i protagonisti siamo noi. Mi paiono modi piuttosto squallidi di perpetuare l’auto celebrazione, farsi pubblicità, mettere sempre innanzi a tutto l’ego… per carità, farsi pubblicità è spesso una necessità per noi outsider, e dunque un peccato veniale, ma ci sono dei limiti, e la morte è il più evidente. Dunque, scusatemi se sono partito a ricordare Paolo Pietrangeli con delle frasi rivolte a me, ma sono totalmente tipiche del tratto ironico e a volte sarcastico, contraltare di una timidezza brusca, delle battutacce politicamente scorrette di uno dei più politici e dei più morbosamente sensibili dei nostri autori. Insomma, sono le prime cose che mi vengono in mente per parlarvi di quell’incredibile coacervo di contraddizioni in cui si alimentava l’arte, la musica e la poesia di Paolo Pietrangeli. 
Perché che Paolo Pietrangeli sia stato un poeta, un cantante e un musicista, non solo di eccezionale talento ma anche significativamente innovativo e inclassificabile è per me una certezza. E poi lui sarebbe il primo a dissacrare la tristezza del finale. Ecco, fatta questa premessa, non ci casco più, e vi dico cosa è stato Paolo Pietrangeli, artista e mio amico. “Il cantore della sua generazione”, “il poeta delle lotte sociali e del sessantotto”… descrizioni che hanno sempre riguardato Paolo e il suo grande amico Ivan Della Mea, il primo le viveva un po’ peggio, il secondo un po’ meglio, ma in entrambi i casi sono definizioni non scorrette, ma così limitative che davvero necessitano di una riformulazione, soprattutto ora che l’ineluttabilità dei confini fisici ci obbliga a misurarci con l’opera e solo con quella. Paolo Pietrangeli si era affacciato alla canzone quando ancora era uno studente piuttosto indeciso sulla piega da far prendere alla propria vita: era cresciuto nell'ambiente estremamente stimolante del cinema italiano degli anni Cinquanta e sessanta, suo padre Antonio è stato un grande regista, fra gli inventori della commedia all’italiana, quella col risvolto cinico, se non proprio tragico (“Io la conoscevo bene” è forse il suo capolavoro). Stimolante, dunque, ma anche rischioso provare a far emergere il proprio acerbo talento in una casa quotidianamente frequentata da Scola, Monicelli, Solinas, Pasolini, ecc. 
Paolo arrivò con un po' di anticipo agli umori della contestazione del Sessantotto, avendo già scritto da un paio d’anni la canzone Contessa che esplose proprio quell’anno, diventando la colonna sonora delle manifestazioni. Ragazzo estremamente attento e allenato a cogliere quanto di meglio circolava, assistette nel volgere di pochi mesi al concerto dei Beatles al Teatro Adriano ed allo spettacolo “Ci ragiono e canto” diretto da Dario Fo… questo per testimoniare che i cantori impegnati non cessavano per questo di essere ragazzi dei loro tempi. Se si riascolta il primo disco di Paolo, quello che contiene appunto le sue canzoni più note: “Contessa”, “Il vestito di Rossini”, “Valle Giulia”… si viene colpiti da molte cose: la varietà dei ritmi, l’alternarsi continuo di registri poetici comici e seri (spesso nel medesimo brano), lo spessore timbrico della voce, una voce molto bella, molto matura e personale per essere quella di un cantante esordiente, e benché il disco sia estremamente sobrio dal punto di vista dell’organico strumentale (un paio di chitarre, qualche punteggiatura d’organo e tantissimi cori) le soluzioni di accompagnamento sono piuttosto elaborate e varie. Pulendo le orecchie dalle idee già acquisite ci si accorge che Contessa alterna i ben noti slogan del ritornello “compagni dai campi e dalle officine / prendete la falce portate il martello” con una
scenetta di dialogo di due signori della buona società, che a ben vedere non è poi così distante dagli sketch di Cochi e Renato o (appunto) dalla Commedia all’italiana. “Il vestito di Rossini” è un racconto di realismo poetico in salsa sindacale e nonostante la tragicità dei morti sia sul fronte operaio che su quello dei poliziotti e del povero protagonista condannato innocente, si conclude con una battuta beffarda. “Valle Giulia”, canzone che celebra uno scontro realmente avvenuto a Roma nel ’68 fra contestatori, polizia e fascisti asserragliati in facoltà, si discosta dalla cupezza solenne di “Morti di Reggio Emilia” di Amodei e dalla drammaticità incalzante della “Ballata per l’Ardizzone” di Della Mea, iniziando con le parole splendida giornata (quasi parlasse di una scampagnata) e alludendo per la prima volta ad una presenza femminile in manifestazione e mi guardavi tu. Insomma, Pietrangeli in pochissimi tratti musicali e poetici, si fa cantore di una realtà profondamente mutata, della quale lui stesso prima che poeta è protagonista. Dopo quel disco Pietrangeli divenne una figura imprescindibile del “folk politicizzato” (prendo di peso, con le dovute cautele, questa definizione posticcia) che lui conosceva bene, ma che, come interprete, ha assai poco praticato, nel senso che più di qualche coro negli spettacoli collettivi non gli si può attribuire sui vari "Bella ciao", 
"Fischia il vento", "Gorizia". Lui in una discografia piuttosto nutrita (più di quindici LP/CD) mantenendo una sua coerenza, ha precisato sempre più quell’impasto di ballata, cabaret, operetta col gusto della narrazione e il vezzo del calambour sempre dietro l'angolo. Intanto come molti sanno, Pietrangeli (che era stato aiuto regista di mostri sacri quali Visconti e Fellini) si è dedicato alla regia di film di fiction e documentari, approdando in modo stabile alla regia televisiva, negli ultimi tempi anche alla scrittura di romanzi gialli. Continuo a pensare che però le sue migliori narrazioni Paolo le abbia sempre riservate alla canzone, il primo amore che non si può scordare, nonostante l’amarezza di sentirsi da una parte cristallizzato nel ruolo di cantante di protesta, che gli stava un po’ stretto, dall’altra di vedere l’ambiente musicale degradato a puro intrattenimento, nel migliore dei casi a poesia avulsa dal contesto, lui che invece è rimasto anche e fino all'ultimo respiro un militante politico. Certo, poi era anche il regista del Costanzo Show o di Amici della de Filippi, perfettamente in grado di districarsi in un ambiente borghese, collezionare (e distruggere) costose pipe e motociclette, allevare cani di razza… ma proprio in quest’ intrecciodi cinismo e di purezza era capace di annoiarsi ed entusiasmarsi a ciclo continuo come un bambino, e di cantare rabbia e speranza assieme, senza mai disarmare il sorriso dalla chitarra. 

Alessio Lega

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