Andrea Parodi Zabala – Andrea Parodi Zabala (Appaloosa Records/I.R.D., 2021)

Agitatore culturale, organizzatore di concerti, discografico e soprattutto cantautore, Andrea Parodi vanta un percorso artistico ultraventennale, intrapreso muovendo i primi passi nella scena musicale lombarda e proseguito costantemente in viaggio tra l’Italia, gli Stati Uniti e il Canada, dove incide il disco di debutto “Le Piscine di Fecchi”, autoprodotto sotto la guida di Bocephus King e nel quale spiccava in nuce la sua capacità di coniugare la tradizione cantautorale italiana con la sua passione per la roots music americana. Nel giro di pochi anni, le frequentazioni con musicisti e songwriter italiani e statunitensi si fanno sempre più intense e, complice la sua attività di promoter con Pomodori Music, nascono le prime collaborazioni di prestigio. Nel 2007, torna in Canada per registrare il suo secondo album “Soldati” che esce per l’etichetta Lifegate e vede la partecipazione al suo fianco di Claudio Lolli, Luigi De Gregori, The Gang e The Be Good Tanyas. Insieme a Massimiliano Larocca diventa, così, tra i protagonisti di quella generazione di artisti che definimmo Italian Roots Songwriter il cui manifesto è rappresentato dalla pubblicazione nel 2010 di “Chupadero!” della Barnetti Bros Band, progetto nato dalla collaborazione con Jono Manson e Massimo Bubola. Quel disco, definibile anche come il manifesto artistico di quel filone cantautorale, paradossalmente ne rappresenta anche l’ultimo atto. Da quel momento, le cose cambiano ma Andrea Parodi prosegue nel suo cammino e, dividendosi tra Italia e Stati Uniti, mette in fila l’album “The Heart of The Cave” con Nashville Orphan Brigade, il doppio disco tributo a Townes Van Zandt e il progetto sull’immigrazione “Yayla – Musiche Ospitali”. Durante i giorni del lockdown del 2020, finalizza la realizzazione del suo terzo disco, le cui registrazioni erano cominciate nel 2013 in Texas con la partecipazione, tra gli altri, di musicisti del calibro di Joel Guzman, David Immerglück, David Grissom, Larry Campbell, David Bromberg, Scarlet Rivera, Tommy Mandel e Radoslav Lorkovic. 
La scelta di aggiungere al proprio nome e cognome il moniker Zabala, accompagna l’uscita del disco eponimo, un lavoro di puro storytelling, intessuto tra ispirazioni cinematografiche e spaccati autobiografici, suggestioni roots e canzone d’autore italiana. Abbiamo intervistato il cantautore canturino per farci raccontare la genesi di questo nuovo lavoro e soffermarci sulle ispirazioni dei brani.

Sono trascorsi quattordici anni da "Soldati". In questo lungo periodo ti sei dedicato soprattutto alla tua attività di agitatore culturale ed organizzatore di tour, festival e concerti, e ciò con particolare riferimento alla scena roots americana e al lavoro forse più importante che è quello di padre. Quanto è stato importante questa fase a livello esperienziale per te e quanto ha pesato nella genesi di questo nuovo lavoro?
Musicista, promoter, organizzatore e scrittore. Sono sempre stato tutte queste cose insieme, ma mai padre. Quello è stato un grande cambiamento nella mia vita. Quando sono andato a Austin nel marzo del 2014 pensavo di tornare a casa con il disco finito. Ho sempre legato ogni disco a un viaggio, a una città. “Le Piscine di Fecchio” e “Soldati” li ho registrati a Vancouver con Bocephus King e per il primo disco ci abbiamo messo solo cinque giorni, compreso il mixaggio. A Santa Fé in New Mexico ho registrato l’album della Barnetti Bros Band, “Chupadero!”, con Massimo Bubola, Max Larocca e Jono Manson. Oltre al fascino di far entrare i luoghi nelle pieghe del disco l’idea era quella di tornare a casa dai viaggi con il disco finito. Questo era il piano anche per Austin, in Texas, la città che sognavo fin da ragazzino perché tutti i miei dischi preferiti arrivavano da lì. Mio figlio Woody non aveva ancora due anni, è venuto con me in America e io ero nel pieno della cosa più grande che mi fosse mai capitata e forse avevo un po’ di paura a finire il disco perché poi significava tornare in strada a suonare. Nel 2010 ero arrivato a fare fino a duecento concerti in un anno, molti anche negli Stati Uniti e perfino al Paramount di Asbury Park sul palco con Bruce Springsteen. Negli anni è cambiata molto la mia prospettiva, ho recuperato la giusta distanza con la musica. “Zabala” racconta il sogno dell’America on the road ma anche la grandezza e la magia di essere padre, di Woody e Geordie.

Da dove nasce la scelta del titolo e come mai hai deciso di utilizzare "Zabala" quasi fosse una tua personale versione di John "Cougar" Mellencamp?
La tua osservazione calza a pennello. John “Cougar” Mellencamp è uno dei miei artisti preferiti e mi sono sicuramente ispirato a lui in questo cambiamento. Dopo essere stato fermo a livello discografico per così tanto tempo serviva una ripartenza, un segnale di svolta. Poi c’è la storia dell’omonimia col grande cantante dei Tazenda. Così è nato Andrea Parodi Zabala, anche se in molti continuano a leggere “Zabala” come titolo del nuovo disco di Andrea Parodi. “Zabala” è un nome di fantasia che evoca terre di confine. Era un calciatore paraguaiano degli anni 80 ed era il soprannome di un mio compagno di scuola. Ma è anche il nome di una città sumera ed è un cognome molto diffuso nel popolo basco. Mi piace perché richiama storie e lascia spazio all’immaginazione.  

Hai registrato gran parte del disco durante la tua permanenza ad Austin nel 2014. Ripercorriamo le varie tappe che ti hanno condotto, poi, a pubblicarlo quest'anno?
Le registrazioni sono cominciate ancora prima, nel 2013 a casa del mio amico Alex Valle, a Genzano, sui Castelli Romani. Abbiamo registrato una dozzina di canzoni, chitarra e voce, le stesse che sono sul disco e un paio di outtakes. Poi a marzo sono volato a Austin per registrare con Joel Guzman, fisarmonicista di Joe Ely e Paul Simon. Le canzoni iniziavano a prendere forma ed erano salvate su un hard disc. L’idea era quella di finire il disco appena tornato in Italia ma poi le cose sono andate diversamente. Pochi mesi dopo è arrivato in tour in Italia David Immergluck dei Counting Crows e siamo andati in studio insieme, abbiamo riaperto il progetto e aggiunto le sue chitarre e mandolino sul disco. Poi quell’hard disk è scivolato di nuovo in fondo al cassetto e ci è rimasto per anni. Forse ci voleva la pandemia per darmi la motivazione per finirlo. Ho pensato che il tempo assurdo che stavamo vivendo ci stesse togliendo tanto, tantissimo ma che ci stava offrendo anche un’opportunità. 
Così in pieno lockdown, quando eravamo in zona rossa e non si poteva neppure più raggiungere il paese di fianco al proprio mi sono immaginato nuovi confini. Non più Mariano Comense, Carimate, Cucciago e Novedrate ma Austin, New York, Chicago, Nashville, New Orleans, Los Angeles. Ho chiamato a raccolta i miei amici musicisti e abbiamo fatto l’unica cosa che ci era concessa in quel momento: suonare a distanza. 

Il disco è impreziosito da numerosi ospiti che spesso hai incrociato anche sul palco e sono diventati, negli anni, amici e compagni di strada. Ce li puoi presentare?
Sul mio sito www.andreaparodizabala.com ho tenuto un diario per presentare tutti i musicisti. Partiamo da David Grissom, leggendario chitarrista di Austin, storico collaboratore di John Cougar Mellencamp. Sempre da Austin ci sono anche David Pulkingham, Andrew Hardin, Glenn Fukunaga, Brannen Temple, Luke Jacobs e Joel Guzman. Al violono c’è Scarlet Rivera da Los Angeles, Tim Lorsch da Nashville, Steve Wicham da Dublino e Carrie Rodriguez da Austin. Joel Guzman ha suonato la sua magica squeeze box e abbiamo lavorato insieme agli arrangiamenti delle canzoni. Larry Campbell ha preso in mano “I Piani del Signore” e l’ha portata nel suo mondo tra Dylan e The Band. Suona il violino e la pedal steel e canta i cori gospel con sua moglie Teresa Williams. Poi c’è David Bromberg che non ha bisogno di presentazioni, basti pensare al suo disco d’esordio al quale parteciparono come special guest Bob Dylan e George Harrison. L’organo hammond è di Tommy Mandell che ha suonato su “Combat Rock” dei Clash! Al pianoforte ci sono Radoslav Lorkovic da Chicago e Brian Mitchell da New York. Neilson Hubbard degli Orphan Brigade ha organizzato una strepitosa session a Nashville arrangiando la canzone “Brasile”. Poi c’è Bocephus King e tutti gli ospiti di Where the Wild Horses Run: Joe Ely, Ryan Bingham, James McMurtry, Greg Brown e Sarah Lee Guthrie. 
E ci sono i nostri musicisti italiani che potrebbero suonare con qualunque cantautore americano e molti di loro già lo fanno. Alex Valle, Alex Kid Gariazzo, Paolo Ercoli, Claudia Buzzetti, Raffaele Kohler. 

Come si è indirizzato il lavoro in fase di arrangiamento e costruzione dei brani?
Abbiamo registrato a distanza e tutto il materiale veniva mandato al The Sheleter Recording Studio di Meda dove assemblavo tutto col bravissimo Matteo Tovaglieri. Nella session di Austin del 2014 le canzoni avevano già preso una forma ben definita e i musicisti che hanno suonato nel disco successivamente sono dei fuoriclasse e hanno registrato immaginando cosa avrebbe potuto aggiungere un altro musicista. Molti di loro poi si conoscevano, avevano già lavorato insieme. C’era un’alchimia incredibile frutto del loro gusto e professionalità. 

C'è qualche artista che avresti voluto avere al tuo fianco in questo album?
Suonano tutti i miei eroi in questo disco però un piccolo sogno ce l’avevo ed era quello di coinvolgere Francesco De Gregori su una canzone.

Rispetto a "Soldati", come si è evoluto il tuo approccio al songwriting? 
Io penso di avere un songwriting molto classico. Sono uno storyteller con punti di riferimento ben precisi che vanno dai songwriters e folksinger americani fino ai nostri Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini e Francesco De Gregori. Mi piace raccontare storie, caratterizzare i personaggi, i dettagli, mi piace scrivere ballate. Il confine, la memoria, la frontiera sono grandi fonti di ispirazioni poi non so se negli anni si sia evoluto il mio modo di scrivere. Quello che conta è non perdere la curiosità, quell’urgenza di scrivere e 
raccontare storie e la bellezza di ogni incontro.

Dalla tua prospettiva: qual è il punto di incontro tra la canzone d'autore americana e quella italiana?
Dalla mia prospettiva sono due anime che convivono in armonia e naturalezza perché sono cresciuto con entrambe. Non ho mai pensato di scrivere in inglese perché significherebbe rinunciare a qualcosa di troppo importante e al tempo stesso fin da ragazzino sognavo un giorno di andare a Austin a registrare le mie canzoni perché la maggior parte dei dischi che mi folgoravano arrivavano da lì. Erano dischi di cantautori, alcuni sconosciuti, che avevo la fortuna di scoprire grazie al Buscadero e a un negozio di dischi della mia città, il Music Maker. Quando avevo quindici anni entrai in quel negozio e chiesi se avessero qualcosa di country ma non troppo country e con le chitarre acustiche ben in evidenza. Tornai a casa con “Guitar Town” di Steve Earle. Mi si aprì un universo e passavo tutti i sabati pomeriggio in quel negozio di dischi. Mi piaceva il suono del violino, della fisarmonica, del mandolino che enfatizzano le melodie e l’epicità delle canzoni e queste sonorità le ho ritrovate anche nei dischi di Francesco De Gregori e Fabrizio De Andrè, soprattutto in quelli in cui ha collaborato con Massimo Bubola. 

Il disco si apre con "Buon anno fratello", un brano emblematico nello storytelling e nella struttura. Come nasce questo brano?
“Buon anno fratello” è una canzone di tanti anni fa. Era un cavallo di battaglia che suonavo dal vivo già ai tempi di Soldati. Molte canzoni di “Zabala” sono state scritti in quegli anni. “Buon anno fratello” racconta le stagioni della vita. L’inverno solenne, riflessivo, spirituale, come la vecchiaia. La primavera è la stagione del gioco, del cortile; è infanzia, spensieratezza e ginocchia sbucciate giocando a pallone. L’estate e i primi amori, le corse sulla sabbia, quel senso d’onnipotenza della giovinezza. E  infine l’autunno con le sue malinconie. La stagione dei poeti e dei cantautori. 
David Grissom ha avuto un ruolo fondamentale nell’arrangiamento del brano, ha deciso di suonare tutte le chitarre, anche le acustiche. Dal vivo apriamo i concerti con “Buon anno fratello”, è un brano su cui i musicisti si divertono molto a improvvisare.

Particolarmente toccante è "Elijah Quando Parla". Quali sono le ispirazioni alla base di questo brano?
“Manhatthan” di Woody Allen mi ha ispirato la canzone. Ho sempre amato i film che danno vita alle città. New York non è solo uno sfondo, ma un vero e proprio personaggio, con emozioni, stati d’animo e personalità. La mia storia tra giallo e passione è ambientata in una seducente Torino. La protagonista è una donna sempre in bilico tra la disillusione e la smania di vivere. Elijah è un salto verso l’ignoto, una voce straniera che fa paura ma la voce più difficile da capire è quella della propria coscienza. Anche qui a livello musicale c’è l’impronta di David Grissom che è uno dei pochi chitarristi al mondo ad aver forgiato un suono e uno stile unico e riconoscibile. Mi piacerebbe molto fare un video di questa canzone. 

"I Piani del Signore" mi ha riportato alla mente il testo di "Nothing is perfect" una canzone minore di Neil Young. Quanto è importante per te la dimensione spirituale?
Sono cresciuto in una famiglia molto religiosa che però ha sempre lasciato spazio alla mia libertà. Io mi sono allontanato abbastanza presto dalla chiesa ma sono consapevole che la spiritualità sia un altro elemento fondamentale di “Zabala” e che torni in molte canzoni come ad esempio “La Ninna Nanna del Maggio” che mi piace definire una preghiera di mare.” I Piani del Signore” è una murder ballad che parafrasa il bigottismo e l’ossessione religiosa al limite del paranormale della provincia americana.  

In “Where The Wild Horses Run” spiccano Joe Ely, Ryan Bingham, Greg Brown, James McMurtry e Sarah Lee Guthrie, una parata di stelle ma non fine a sé stessa. Ci puoi raccontare questo brano?
È una ballata epica che racconta un finale diverso all’epopea di Billy The Kid che fu ucciso a Fort Sumner il 13 luglio del 1881 per mano di Pat Garrett. Un mese dopo un tale di nome John Miller si sposò con una donna messicana a Las Vegas, New Mexico. Chi lo vide quel giorno, compreso il prete che lo sposò, giurò che fosse Billy the Kid. Tempo dopo, il fiume Pecos esondò straripando nel cimitero di Santa Fe dove era sepolto Billy the Kid e il suo corpo non fu mai trovato. 
Ogni strofa è la testimonianza diversa di un personaggio che alimenta questa leggenda. Avevo già inciso la canzone in Italiano nel disco “Chupadero!” della Barnetti Bros Band  e ognuno di noi dava voce a un personaggio. Io ero il prete, Jono Manson il proprietario di un ristorante, Massimo Bubola un cowboy, Max Larocca il figlio nativo americano che Billy The Kid aveva adottato e Lucia Miller era la moglie messicana Isadora. Il progetto Barnetti Bros Band era nato ispirandosi a super gruppi come i Travelin’ Wilburys. Ho sempre amato questo genere di collaborazioni e Joe Ely è stato uno dei protagonisti assoluti di straordinarie collaborazioni come i Los Super Seven, il tribute album all’Interstate 10 e i Buzzin’ Cousins di John Mellencamp, John Prine, James McMurtry e Dwight Yoakam e Joe Ely naturalmente che in Texas è una leggenda vivente e lo è stato anche per Joe Strummer e Bruce Springsteen. Ogni anno a marzo organizzavo una cena a casa di Joe Ely, nel suo ranch. Arrivavano tutti, Jimmy LaFave, Kevin Welch, Butch Hancock, JT Van Zandt, Sam Baker, Gurf Morlix, Eric Taylor. Io cucinavo, era il mio modo per ringraziarli, poi ci si metteva intorno a un fuoco a suonare. Si stupivano di come riuscivo a metterli tutti assieme, vivevano nella stessa città ma non si vedevano praticamente mai. “Where the Wild Horses Run” mi ricorda quelle cene nel ranch di Joe Ely e ho voluto che fosse lui ad aprire la canzone. Joe è andato in studio con James McMurtry tra una dose di vaccino e l’altra, mentre era morto Larry McMurtry da pochissimi giorni, padre di James e uno dei più importanti scrittori di sempre. La seconda strofa è cantata da Ryan Bingham e trasuda west e polvere in ogni sillaba. Poi ci sono Greg Brown, una delle voci più belle del songwriting americano e Sarah Lee Guthrie, figlia di Arlo e nipote di Woody Guthrie. Sarah è venuta in Italia al mio matrimonio, sono stato con lei a suonare al Woody Guthrie Folk Festival a Okemah e in Massachussets, nella chiesa di Alice di Arlo e al Dreamaway Lodge, il locale dove è nata la Rolling Thunder Review e dove hanno girato parte di Renaldo e Clara e dove il giovane Dylan flirta al bancone del bar con Joan Baez nell’ultimo film di Scorsese. Mi sono venuti i brividi a rivedere quella scena. 
La musica per me ha accorciato ogni distanza e mi ha fatto vivere esperienze indimenticabili. La canzone è una fotografia di questi incontri. Al violino poi c’è Steve Wickham dei Waterboys che mi aveva detto che era bloccato in casa dal lockdown e che non avrebbe potuto registrare in tempo sul mio disco. Poi gli ho mandato la canzone, con tutte queste guest pazzesche e la mattina dopo avevo la sua traccia di violino. 

Altro brano cardine del disco è "Brasile" in cui spicca un approccio quasi cinematografico alla scrittura...
È una canzone a cui sono particolarmente affezionato. C’è un intero film concentrato in pochi minuti, è straordinario quello che si riesce a fare scrivendo una canzone. Mi sono ispirato a “Romance in Durango” di Dylan, a “Pancho & Lefty” di Townes Van Zandt e alle ballate di Eric Taylor, lui era un maestro a scrivere storie cinematografiche. Il protagonista della canzone è ispirato a Cesare Battisti e a Luciano Lutring che ho frequentato ai tempi della Barnetti Bros Band. Sono molto contento per come il pubblico e la critica abbiano accolto Brasile e sicuramente parte del merito va all’arrangiamento meraviglioso di Neilson Hubbard.

C'è un brano a cui sei più legato?
Affettivamente la canzone a cui sono più legato è “C’è”. È una canzone d’amore atipica per un cantautore perché non è triste ma sprizza gioia da ogni nota. Fotografa uno dei momenti più belli della mia vita, quando abbiamo scoperto che sarebbe arrivato Woody. Durante il viaggio in Texas del 2014 mi sono sposato con mia moglie nel ranch di Joe Ely, sotto una quercia indiana secolare e le nozze sono state celebrate dal figlio di Townes Van Zandt. Tornati in Italia ci siamo sposati una seconda volta nel bosco della festa de L’Unità di Cantù e ho finito di registrare “C’è” affinché diventasse la nostra bomboniera di nozze.  Se Zabala è un disco on the road e di frontiera sicuramente “Gabriela Y Chava Moreno” è la canzone manifesto di questo viaggio. 
È un’altra canzone cinematografica ed è un omaggio dichiarato alla Frontiera, al Rio Grande, al Texas di Joe Ely e Tom Russell ma anche al Ticino e alla Sesto Calende di Carlo Carlini e di tutti i songwriters che arrivavano in quegli anni. I primi concerti che vidi furono quelli di Butch Hancock e Jimmy La Fave. Andavo ancora al liceo. Sognavo un giorno di andare a Austin a incidere un disco con quei suoni. E ho sognato un giorno di suonare con Radoslav Lorkovic fin dalla prima volta che lo ascoltai insieme a Richard Shindell e Greg Brown. E la stessa cosa vale per le chitarre di David Pulkingham e Andrew Hardin che quando accompagnava Tom Russell in quegli anni sembrava ci fosse un’orchestra intera sul palco. Le sue intro tra Messico e Hawaii su Gallo del Cielo e Angel of Lyon erano da pelle d’oca. E poi Joel Guzman e Scarlet Rivera che hanno chiuso il cerchio per rendere omaggio a una terra di frontiera che ha cullato i miei sogni più intensi. Scarlet è “Desire”, il disco di Bob Dylan che più ho consumato da ragazzino ed è soprattutto “Romance in Durango” che ha ispirato profondamente “Gabriela Y Chava Moreno”, nei personaggi, nell’atmosfera di un viaggio sul confine messicano. Io sono nato e cresciuto a Cantù che è una città di frontiera perché è a meno di 20 minuti dalla Svizzera ma è un confine pressoché inesistente, senza sapore. La cosa che mi ha colpito di Austin è che dista oltre quattro ore di macchina dal Messico eppure quell’aria di confine la percepisci ovunque, soprattutto nella musica e nel cibo. Austin è un luogo dell’anima, questa canzone è nata in quei luoghi, davanti a quei tramonti che ti tolgono il fiato. 

Hai già portato sul palco le canzoni di "Zabala". Com'è stata la risposta del pubblico?
È stata un’estate straordinaria. Abbiamo suonato dalla Puglia al Trentino con una super band che al completo è di ben 10 elementi sul palco. La band si chiama “Borderlobo” e il leader è Alex Kid Gariazzo, cantante e chitarrista della Treves Blues Band che ha diviso il palco con Deep Purple, ZZ Top e Bruce
Springsteen e accompagna molti degli artisti americani che porto in Italia, ad esempio Michael McDermott. Al basso c’è la sua compagna, Angie. Alla batteria c’è Max Malavasi, lo conosco da una vita e ha suonato Bocephus King, Greg Trooper e Tim Grimm. Poi c’è quel fenomeno di Raffaele Kohler, il Jimi Hendrix della tromba. Durante il lockdown suonava tutte le sere alle 18:00 da dietro le grate della sua finestra a Milano. Immagini che sono state riprese e rimbalzate dai tg di tutto il mondo arrivando a commuovere personaggi come Joan Baez e Sofia Loren e a portare Raffaele a suonare al Gran Premio di Monza, al derby Inter-Milan a San Siro e al Busker Festival di Ferrara come padrino insieme a Gianna Nannini. La formazione è modulabile e arriva al completo ad ospitare fino a dieci elementi sul palco. Di fianco a Raffaele c’è Luciano Macchia al trombone e insieme sono pura dinamite. Al pianoforte, fisarmonica e organo c’è Riccardo Maccabruni e ai cori c’è Claudia Buzzetti che è giovanissima ma ha una voce antica che mi ricorda quella di Emmylou Harris. Ha cantato con Jaime Michaels, Bocephus King, Jono Manson e anche in Cina con l’Orchestra del Cinema Italiano nel musical di Harry Potter. Al dobro, pedal steel guitar e mandolino c’è Paolo Ercoli che in questi anni è stato musicista e roadie di quasi tutti i cantautori che ho portato in Italia, da Malcolm Holcombe a Thom Chacon.  E infine mio figlio di nove anni, Woody, che suona il pianoforte e ci raggiunge sul palco ogni sera. E si prende gli applausi più belli, ma soprattutto è parte di questa band e famiglia, i Boderlobo! Non vedo l’ora di ripartire coi live, sicuramente stiamo vivendo un momento delicato ma ci sono già diverse date in cantiere per la primavera e per l’estate e a maggio si unirà alla band anche Scarlet Rivera al violino. Tutte le date le troverete presto sul mio sito www.andreaparodizabala.com



Andrea Parodi Zabala – Andrea Parodi Zabala (Appaloosa Records/I.R.D., 2021)
Attendere oltre dieci anni per pubblicare un nuovo disco rappresenta una anomalia, o quantomeno una cosa strana, in una fase in cui artisti e band sfornano un disco all’anno. In realtà questo è solo uno dei sintomi della superficialità dei tempi attuali in cui tutto si consuma facilmente e la musica, dopo un mese è già vecchia. Contrariamente a quanto impone il mercato, c’è ancora chi fortunatamente intende la professione del cantautore come una sorta di artigianato, un labor limae lento e meditato, spesso foriero di incontri, collaborazioni e crescita. E’ il caso di Andrea Parodi che, a quattordici anni da “Soldati” torna con l’album eponimo, terzo in carriera e che vede il battesimo di fuoco del moniker Zabala. Si tratta di un lavoro dalla lunga gestazione che, come ci ha raccontato nell’intervista, è iniziata nel 2013 in Texas e ha visto la partecipazione di un cast di strumentisti ed ospiti di assoluto prestigio, guidato da Joel Guzman (fisarmonica, organo Hammond B3) che ha curato la produzione, e in cui spiccano, tra gli altri, Alex Valle, David Immerglück, David Bromberg, Larry Campbell e David Grissom (chitarre), Brennan Temple (batteria), Carrie Rodriguez, Tim Lorsch, Steve Wickham e Scarlet Rivera (violini) e poi ancora le voci di Joe Ely, James McMurtry, Greg Brown, Sarah Lee Guthrie e Ryan Bingham. Un ensemble a geometrie variabili composto da amici, colleghi ed ospiti d’eccezione, incontrati lungo la strada in un viaggio durato sette anni e ben evocato dalla splendida copertina con la Highway 6, a est di Tonopah, Nevada, nello scatto di Radoslav Lorkovic. L’ascolto svela dodici brani originali in cui una affabulativa scrittura cinematografica si accompagna ad uno storytelling appassionante, componendo le singole parti di una sorta di film collettivo in musica, da ascoltare con grande partecipazione emotiva. Ad aprire il disco è l’intensa “Buon anno fratello”, guidata dall’Hammond B3 di Joel Guzman e dalle chitarre di David Grissom, a cui segue la splendida “Elijah quando parla” nella quale le istantanee di Torino si sovrappongono alla storia della protagonista. Le chitarre acustiche di Luke Jakobs e Alex Valle e la pedal steel di Larry Campbell impreziosiscono l’oscura murder ballad “I Piani del Signore” in cui ascoltiamo la storia di un uomo ossessionato dalla concezione del destino della madre bigotta. Uno dei vertici del disco arriva con l’epica “Where the Wild Horses Run” con le voci di Joe Ely, Ryan Bingham, Greg Brown, James Mc Murtry, Sara Lee Guthrie a cui è affidato il racconto delle leggendarie vicende di Billy the Kid fu ucciso a Fort Sumner il 13 luglio 1881 per mano di Pat Garrett. Il sound tex-mex di “Gabriela y Chava Moreno” con il dialogo tra la fisarmonica di Joel Guzman e il violino di Scarlet Rivera, ci introduce a “Se vedessi la baia ora” nella quale fa capolino la chitarra di David Bromberg. L’atmosfera di feste e le buone vibrazioni di “C’è” ci schiudono le porte all’altro vertice del disco “Brasile”, in cui il pianoforte di Neilson Hubbad e il violino di Eamon Mc Louglin avvolgono un brano di puro storytelling. Se “Tutti i pesci del mare” è un inno alla vita e alla bellezza, la successiva “E’ solo un fiore” ci riporta alle atmosfere western con la pedal steel suonata magistralmente da Paolo Ercoli. La solare “Maya dei girasoli” e la toccante “Ninna nanna del maggio” con la partecipazione di Bocephus King chiudono un disco di pieno di fascino e belle canzoni che piacerà certamente agli appassionati di roots music.


Salvatore Esposito

Foto di Pino Bertelli (2, 6), Paolo Brillo (3, 4)

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