Hartmann Ensemble – Trotula (Rupa Rupa Records, 2021)

Il loro nome non ha niente di filosofico, di musicologico o di esoterico, perché in origine, ironicamente, faceva riferimento al famigerato sergente di “Full Metal Jacket”. “Poi – racconta Carlo Roselli, frontman e portavoce della band – per il nostro primo concerto, cercando immagini di sciapodi e blemmi mi per la locandina mi sono (re-)imbattuto nelle illustrazioni di le “Cronache di Norimberga”, una storia del creato del ‘400 scritta e illustrata da Hartmann Schedel (fisico, storico e cartografo tedesco che usò per primo la tecnica della stampa per la cartografia…) dalla quale abbiamo preso il panozio dalle orecchie lunghissime che è stato per un po’ sui manifesti per il nostro concerto/spettacolo ‘musiche e diari dall’Età di mezzo’. Il testo di Hartmann stesso lo abbiamo usato per alcune letture su questo mondo fantastico descritto dai viaggiatori del tempo: quindi il nostro nome è rimasto Hartmann”. Stiamo parlando di un gruppo nato nel 2015 a Salerno, il cui titolo di debutto è, invece, ispirato a Trotula De Ruggiero, celebre medica della città campana, fulcro della medicina medievale europea. Gli Hartmann Ensemble presentano una strumentazione variegata: Carlo Roselli (chitarre, robab, oud), Renata Frana (dilruba), Orsola Leone e Alberto Ferraro (voce), Gabriele Pagliano (contrabbasso) e Daniele Apicella (percussioni). Il sestetto attinge a varie fonti, dalla musica antica alla tradizione napoletana, fino ai domini ritmici e melodici di Afghanistan e India. Spiega Roselli: “Quando abbiamo cominciato a scrivere i brani per ‘Trotula’, giocavamo tantissimo con la musica del XIII e XIV secolo dell’Europa meridionale (Guillaume de Machaut, Berenguier de Palou, alcune cantigas…) con l’obiettivo di trovare un nostro suono e una nostra strada per approcciarci alla composizione modale che non fosse per forza di cose mutuata dalle tradizioni che studiavamo, afghana e indiana, né troppo vicina alla nostra musica popolare del Sud. Questo repertorio ci ha permesso di suonare facendoci un po’ le ossa e ci ha aiutato a metterci in discussione attraverso una musica fatta sostanzialmente di silenzio. Il disco (pubblicato in vinile in edizione limitata con sleeve interna e copertina xilografata, in digitale su Bandcamp e, limitatamente, su supporto CD, ndr) è un po’ un saluto a un momento per noi ‘fondante’, a un repertorio che ci ha un po’ costretti a trovare un equilibrio tra gli strumenti che suoniamo, il ‘genere’ e quello che stavamo diventando. Una trasformazione che stiamo portando avanti e ci sta dirigendo piano piano altrove. Per dirne una, prima mi facevo problemi a usare la chitarra classica, adesso la suono nei brani nuovi senza problemi, insieme ad una fretless. Abbiamo anche inserito un synth in alcune composizioni nuove: introdurre nuovi elementi ci tiene svegli e lucidi nell’approccio alla composizione. Per certo quel periodo doveva chiudersi, se no in alto mare non ci saremmo mai avviati...”. Nel disco d’esordio, dunque, si affidano soprattutto a testi napoletani su musiche originali, spesso intrecciate a un’attitudine teatrale, come nella title-track di apertura, sorta di alap su versi recitati da Antonio Petti, che finisce in un melismatico canto ‘a fronna, o nell’atmosferica “Luce e argiento”, quasi una fiaba, della quale esisteva solo il testo e una breve linea melodica, e che si sviluppa come improvvisazione su tema. “L’improvvisazione è una parte fondamentale di tutto il processo compositivo. Improvvisando sui raga spesso troviamo delle cellule melodico-ritmiche che diventano poi la base per costruire linee più solide, immaginandone anche le possibili modulazioni da un modo all’altro, da una figurazione ritmica all’altra. Il teatro (come anche la danza contemporanea e le arti visive) fa parte del nostro percorso, soprattutto per quello che riguarda me e Alberto Ferraro. Buona parte dei testi derivano da una serie di micro-drammaturgie nate dalla mia frequentazione con Elena Bucci e Marco Sgrosso e da spettacoli scritti in precedenza. ‘Trotula’ a parte, il mare è protagonista assoluto. Il fatto è che queste parole hanno un ritmo proprio, spesso mi sembrano già musica (e difatti nelle regie non mi interessa per niente l’interpretazione attoriale ma la capacità di percepire la musica che si nasconde tra le righe di un testo, che poi diventa senso, ferita, cura…). Che questi pezzi siano diventati canzoni è un percorso del tutto naturale e spero solo che abbiano forza evocativa”. Una donna canta per il suo amante che parte su una barca migrante nella seducente “Occhi di perla” (di cui il gruppo ha prodotto un video, che trovate in fondo alla recensione, ndr), dove ricorrono alla lingua nazionale tra suggestioni fadiste ed altre confluenze sonore. L’Ensemble genera interessanti trame e idee ritmiche nella ben nota filastrocca “Zi' Monaciello” e in "Kirwà", costruita su un raag kirwani, incorporando poi umori mediterranei. La fusione si fa più densa nella conclusiva “La ténta”, il cui testo viene dal “Pentamerone” di G.B. Basile, e dove si combinano musicalmente un drammatico canto e un crescendo di intricati tempi irregolari. In attesa di capire che rotta intraprenderanno, il crocevia musicale e la singolarità artistica degli Hartmann Ensemble meritano attenzione. 


Ciro De Rosa

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