Rodolphe Burger/Erik Marchand – Glück Auf! (Dernière Bande, 2021)

Nell'anno 2005 si era celebrato in Francia uno stupefacente matrimonio a tre: canto artigiano contemporaneo bretone, rock-blues celebrale alsaziano e oud algerino elettrificato. L'incontro tra Erik Marchand e Rodolphe Burger era avvenuto l'anno prima proprio grazie a Mehdi Haddab. Il polistrumentista franco-algerino che dopo studi classici con maestri arabi e turchi aveva dato vita al fantasmagorico gruppo Ekova assieme alla cantante e violoncellista americana Dierdre Dubois e al percussionista iraniano profugo Arash Katalabari. Il loro secondo disco aveva creato meraviglie mai udite in quel 2000. Su tutte la loro versione di oltre dieci minuti della ballata inglese Cruel Sister che mescolava Pentangle e Dead Can Dance, proiettando il medioevo in una prospettiva elettronica da quarto millennio. Il 27 ottobre dell'anno seguente furono ospitati a Sanremo durante la serata finale di una strepitosa ventiseiesima edizione della Rassegna Tenco. La cantante pareva una libellula intergalattica vestita delle parole di un lingua da lei stessa inventata. Dunque Mehdi Haddab durante un festival a Morlaix, museo a cielo aperto di case a lanterna, presentò Erik a Rodolphe e i tre decisero di collaborare. Al disco che prese vita tra la Bretagna e i Vosgi venne messo il nome Before Bach, apolide viaggio controcorrente dagli Urali all'Isola di Batz attraverso il Mediterraneo. Difficile immaginare il risultato di uno scontro tra Marchand interprete di una Bretagna innamorata dei Balcani e Burger, bluesman, amante del surrealismo in canzone, capace di passare da Françoise Hardy all'ornettiano armolodico James Blood Ulmer. Con il supporto della sezione ritmica Le Meteor Band, inventarono dal nulla un grande affresco anticonformista attraverso un repertorio unico e senza concessioni, capace di distruggere al suo passare, generi, preconcetti e scontatezze. Questo triangolo musicale non si incontrò né a Oriente né a Occidente ma su un sesto continente musicale. Territorio ibrido tra musica modale e ricchezza armonica, sonorità elettriche e digitali, spirito rock-blues e repertorio tradizionale. "Etica dell'amore, sei andata a male, penso che donerò il mio corpo alla fantascienza". Ora, ben sedici anni dopo Erik, Rodolphe e Mehdi scendono giù nella miniera a scavare con l'intenzione di estrarre un nuovo repertorio che sfidi le certezze. "Glück Auf !" (Buona Fortuna!), li vede ancora assieme a Julien Perraudeau (tastiere, basso) e Arnad Dieterlen (batteria) con l'aggiunta di Pauline Willerwal (gadulka bulgara, canto), violoncellista che nel biennio 2013-2015 ha fatto parte della Kreiz Breizh Akademi. Il titolo è un omaggio al celebre motto dei minatori di Sainte-Marie-Aux-Mines riferito all'augurio di «trovare il minerale e tornare vivo». Oggi è diventata una forma di saluto comune nella regione dei Monti Metalliferi della Germania orientale e della Ruhr ma un tempo l'estrazione era senza prospettive certe e i rischi di morte elevati. Questo luogo nell'Alsazia a ridosso della Foresta Nera tedesca è caro a Rodolphe Burger per avergli dato i natali e fu abitato in antichità anche da popoli celtici come i Sequani o i Rauraci. La prima canzone "Kazanova" accende subito la miccia del suono, si tratta di una rivisitazione del secondo brano di "An Tri Breur" (1991) del trio di Erik Marchand/Keyvan Cheminari/Titi Robin su una musica di quest’ultimo. In quel cd compariva sotto il titolo di "Ar Froudennoù" (I capricci). Il testo è l’adattamento bretone di una rilettura balcanica degli scritti del libertino veneziano ad opera del compianto Yann-Fañch Kemener. L’intreccio delle corde di chitarra e oud con i loop ossessivi della gadulka creano una trance dove le voci, rigida quella di Erik e flemmatica quella di Rodolphe, conducono in un altrove amoroso di nomade ardore “La mela ferita che mi hai offerto, mi hai detto di morderla anch’io”. La ritmata "Kara Toprak" è un brano tradizionale turco con le parole di un amore puro e fedele alla Terra da parte del poeta Âşık Veysel. Al canto Pauline: “Da quando sono nato ho preso ogni ricchezza dalla nera terra, prendi la sincerità dal suolo in cui vivi, dammi mille granelli di terra, la mia parte preferita è quella della terra nera”. Alla linea ossessiva di basso elettrico si sovrappone una gadulka melodica e sinuosa a cui segue la recitazione di Burger nella traduzione francese del testo. Il titolo “C'est dans la Vallée” maschera in realtà la ballata tradizionale americana dei Monti del Sud “Moonshiner”. Un tradizionale di cui nel dicembre 1963 anche l’allora ventiduenne Bob Dylan registrò negli studi CBS di NYC una versione con voce rassegnata, arpeggio minimale e armonica. Il brano verrà incluso ufficialmente nel cofanetto Bootleg Series vol. 1-3 (1991). C’è anche chi sostiene che la canzone sia però di origine irlandese e divenuta famosa in America solo in un secondo momento. Burger la canta in lingua originale e ogni due strofe Marchand ne esegue l’adattamento in bretone di Krismenn. “Il mondo intero è una bottiglia e la vita nient’altro che un bicchierino, quando una bottiglia si svuota è sicuro che non vale un fico secco”. "La Mine", lunga ed inquietante discesa attraversata da un crescente ritmo blues alla chitarra, evoca scene come in un film di John Carpenter. La composizione si deve a Krismenn, nome d’arte di Christophe Le Menn di cui Marchand è il mentore. Il giovane rapper e cantautore bretone è l’inventore del “kan ha beatbox”, ovvero unione del kan ha diskan con il beatbox umano. Dopo l'intervento di oud e gadulka, nella seconda parte della canzone lo stile vocale si cambia in gwerz, canto della Bretagna profonda, creando monodico contrasto tra il lamento tradizionale, cupo e poetico di una voce allucinatoria e il graffio dell'arrangiamento modernista degli altri strumenti. Anche se non è scritto nella copertina, Marchand ha dedicato il brano a Manuel Kerjean, il maestro che gli ha insegnato i virtuosimsi nascosti del repertorio di canti di Centro-Bretagna e con cui per lunghi anni lontani si era esibito in duo nelle fest-noz. Nella folcloristica ed ipnotica “Nuit Albanaise” interpretata a due voci da Erik e Pauline lo sciamanico ritornello pare richiamare ad una nenia dei nativi americani ma forse è solo una suggestione. La lega di tutto questo disco non sembra avere origini geografiche o etniche, quanto private, interpretare una canzone di origine albanese incorporando una parte del testo in bretone non può essere legato che a storie personali. “Waste Land” è un estratto dal celebre poemetto Terra Desolata del 1922 di T.S. Eliot che Burger ha musicato su un tessuto blues e già più volte interpretato nei suoi dischi “uomini vuoti, uomini imbottiti, appoggiati insieme, voci secche quando sussurriamo insieme”. E’ qui accompagnato da una melodia addizionale di Marchand su un testo in bretone di Myriam Guillevic ispirato dall’universo del romanzo Avril Brisé, opera dello scrittore albanese Ismaïl Kadaré. Eliot si riferisce alle “terre guaste” dei poemi epici medievali, quei territori aridi che i cavalieri dovevano attraversare per giungere al Graal ma contemporaneamente anche alla sterilità e allo squallore della civiltà occidentale uscita, all’epoca della scrittura, da pochissimi anni dalla prima guerra mondiale. Di notevole attualità, afferma una lucida visione pessimistica della realtà dove la poesia può solo registrare la progressiva frantumazione e desertificazione dell’umanità. Terra Desolata viene sovente citato, lo fece tra gli altri, anche Francesco Guccini nella Canzone Dei Dodici Mesi (Radici, 1972). Il lato minerario del disco riappare in “John Henry”, nel nome del quale il fantasma di Woody Guthrie si reca ad un appuntamento con Tom Waits in un’arida valle rocciosa. Armonica a bocca e gadulka forgiano l’epica metallica di un’ America profonda e il blues offre il faticoso ritmo della vicenda che racconta un’immane fatica. La storia di John Henry è diventata una canzone folk ma anche opere teatrali, libri, romanzi. Fu utilizzata come simbolo da movimenti culturali, di lavoratori e per i diritti civili quale rappresentazione di forza fisica e resistenza contro lo sfruttamento lavorativo. E’ una canzone simbolo dell’orgoglio e della dignità della persona contro il degrado portato dall'era meccanica. Perfino il governo degli Stati Uniti al tempo della seconda guerra mondiale utilizzò la sua immagine a propagandare tolleranza sociale e solidarietà razziale contro le diversità. La grande abilità di John Henry, secondo la leggenda, fu misurata in una corsa folle contro una perforatrice a vapore che l’uomo vinse per morire però d’infarto subito dopo, ancora col martello in mano. Il suo cuore aveva ceduto per lo sforzo. Vari luoghi sono stati indicati come scena della vicenda: il Big Bend Tunnel in West Virginia, il Lewis Tunnel in Virginia, il Coosa Mountain Tunnel in Alabama. L'inedita adesione a questo ceppo d'America raccontato dal rock delle origini, da parte del bretonante Erik Marchand, cantante situato tra confronto e armonia, durezza e flessibilità, ancoraggio e sradicamento, è davvero sorprendente. Lui che ama talmente la musica delle Taraf d’aver voluto imparare la lingua rumena e di aver eletto la regione di Banat come suo secondo paese, non avrebbe mai immaginato un giorno di cantare blues in lingua bretone. Attraverso viaggi e incontri di questo tipo, si costruisce un anti-nazionalismo la cui lega appare solida e la vena brillante. Artisticamente (e non solo) una lingua e una cultura possono costituire solamente una base per comprendere ma non un obiettivo. Rappresentare una pietra angolare che tenga insieme una casa, ma non la casa stessa. Un luogo dove si può tornare per cercare talvolta riparo. Il disco termina in Svizzera, sulle orme di Martin Eicher e del gruppo Grauzone per un brano consacrato all’Orso Polare, "Eisbär", originariamente una canzone dal suono freddo e sintetico che ricorda certi ritmi new wave anni ‘80. Rodolphe ed Erik cercano di donarle invece un respiro caldo e confidente. Le due voci inizialmente separate finiscono per rincorrersi, ingarbugliarsi, fino a coesistere in un ultimo salto liberatorio e trascendente nel vuoto. Dopo un inizio minimale, il finale diviene intensamente rock, Pauline si inserisce e prende spazio dapprima con la voce e poi dolcemente con lo strumento ma viene inghiottita in un finale improntato all'irragionevolezza. “Voglio essere un orso polare, così non dovrei più urlare e tutto sarebbe chiaro. Gli orsi polari non devono mai piangere”. L’adattamento in bretone del testo, com’era stato in precedenza anche per “Nuit Albanaise” è opera sempre di Myriam Guillevie. Peccato solo per l’assenza completa di un libretto con i testi all’interno di un cd così curato graficamente, in suo luogo un poster. Una sola domanda mi pongo: ma chi saranno mai questi quattro indiani con copricapi piumati che sfrecciano con le slitte sulla copertina? 


Flavio Poltronieri

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