Khöömei Beat – Changys Baglaash (Arc Music, 2021)

Il loro sound è fusione di liuti, archi, cetra e percussioni di tradizione, sezione ritmica rock e, soprattutto, flussi di armonici sprigionati con tecniche diplofoniche, che dalle loro parti si chiamano khöömey. Avrete capito che siamo a Tuva, terra della Siberia centro-meridionale. Khöömei Beat si sono formati nel 2017, incontratisi per caso durante un concorso musicale, concentrano i moltiformi aspetti del paesaggio musicale contemporaneo della Repubblica della Federazione Russa. Ai-khaan Oorzhak è una delle due voci guida ma suona anche il doshpuluur, liuto di forma trapezoidale a due corde, e l’igil, cordofono a due corde suonato con un archetto e tenuto in posizione verticale. Kang-Khüler Saaya, che arriva dalle montagne più remote di Tuva, è l’altro lead vocalist, suona il byzaanchy, una viella ad arco a quattro corde, il chadagan, una cetra a sedici corde pizzicata o percossa con bastoncini, e lo shyngyraash, sorta di campane metalliche. Bailak Mongush è batterista e percussionista dal drumming preciso e affilato, oltre a comporre musica si occupa pure dei campionamenti. Aidyng Sedii, autore degli arrangiamenti, aggiunge il suo violoncello, mentre Shoraan Ochur è il bassista e il flautista (il lungo flauto shoor si suona imboccandolo in un angolo della bocca). Il palo per legare gli animali dalla punta a forma di testa di cavallo raffigurato in copertina e nel titolo dell’album è il simbolo delle tradizioni della pastorizia mobile, oggi sempre più in declino: rappresentava il lignaggio familiare, i legami comunitari ma anche l’energia sessuale maschile. Una volta issato, si riteneva che non dovesse mai essere spostato, tagliato o bruciato. A Tuva esiste un detto: “Finché c’è il palo, la famiglia è ancora viva”. Rispettando la storia culturale della propria terra, i Khöömey Beta intendono attrarre le giovani generazioni per favorire la conoscenza del patrimonio musicale tradizionale. Così, in repertorio hanno canzoni originali e temi tradizionali; la forza del quintetto risiede nelle diverse combinazioni timbriche, nell’uso delle tecniche canore del canto armonico e nella ritmica efficace. Nell’iniziale “Salgal Damchaan Khoomeiym”(Il Khöömei dei miei Antenati), canzone composta dall’autore tuvano Valeriy Mongush, attaccano con un tamburellare che ricorda l’andatura sostenuta del cavallo. Il motivo si sviluppa su una struttura pentatonica, sorretta dalla ritmica rockeggiante, su cui si diffondono gli armonici del canto che caratterizzano anche la folk song “Chaldyg-Khaya”, segnata dal vigore dell’archetto sfregato e dal sinuoso fraseggio dello shoor. I diversi tipi del cosiddetto “canto di gola” sono metaforicamente paragonati a elementi e sentimenti nell’incalzante “Dembildey”, secondo brano firmato da Mongush, e primo singolo dell’album. Con i tempi medi da rock ballad di “Chovulannyg Kizhi Tolu” (Amaro Fato Umano) ci inoltriamo di nuovo nei repertori tradizionali: le liriche della canzone, dalle quali traspaiono riferimenti al concetto buddista di “samsara”, mettono a confronto il destino del cavallo e quello dell’uomo (“Come la coperta del cavallo non si asciuga dal sudore, la sofferenza umana è eterna”). La successiva “Traditional Tuvan Khöömey” è un notevole florilegio dei cinque differenti stili di diplofonie. Farle confluire in una sola canzone è indice di grande abilità canora e di elevati livelli performativi. Il secondo più vasto fiume tuvano, il Khemchiim, che scorre nella parte occidentale della regione ed è un affluente dello Yenisei, è protagonista dell’omonima canzone tradizionale che lo rappresenta come una culla. Qui, il cantore esprime il suo sentimento per la terra natia e per la sua amata. “Kochegar” (Il Fuochista) guarda con un doppio stato d’animo a un mestiere che da un lato è molto importante per le comunità tuvane, dall’altro diventa una limitazione della mobilità sociale e una restrizione di casta. Ci si lancia negli scenari della steppa con “Kara-Daglar” (composto da Aldyn-ool Mangush), brano che racconta della separazione dai luoghi d’origine e dalla propria madre. Non meno pronunciati il ritmo e la visualità che affiorano in “Dorug-Daiym” (scritta da Mongun-ool Ondar), altro motivo a presa rapida, un inno all’empatia tra uomo e cavallo. La band tocca quota con la title track, scritta ancora da Valeriy Mongush, e posta in chiusura del disco. Come detto, il tema della canzone è il simbolo, l’essenza delle culture nomadiche dell’Asia Centrale e della Siberia, sempre più sedentarizzate: “Perché le loro voci non riecheggiano sulle piste? Perché il loro bestiame non pascola sui pascoli? Non torneranno al loro accampamento? Non torneranno? Tracce di vecchi pascoli si possono vedere sul bordo della strada. Le loro tracce non sono ancora fredde, non sono ancora scomparse. E solo un palo di sosta solitario sta a guardia, sperando che ritornino”. Khöömei Beat: potenti e diretti, con esiti notevolmente convincenti. 


Ciro De Rosa

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