Francesco Giunta – A na vistina di casa nu ciuriddu cuseru. La Buona Novella di Fabrizio De André in siciliano (Il Cantautore Necessario/Musica del Sud, 2021)

Ci sono album in grado di segnare indelebilmente la vita di chi li ascolta, diventando parte integrante del proprio patrimonio culturale ed ideologico. “La Buona Novella” di Fabrizio De André ne è un esempio. Esiste un “prima” e un “dopo” l’ascolto di questo disco per la forza dirompente della sua poetica e del suo messaggio. Partendo da questo presupposto e da quello prettamente di natura squisitamente geografica, è facile intuire l’importanza dell’operazione culturale messa in campo da Francesco Giunta riadattando in siciliano “La Buona Novella” con la curatela editoriale di Edoardo De Angelis. Del resto, avendo ben presente la sua importanza nel panorama culturale e linguistico (andate ad ascoltarvi il suo “Li varchi a mari”, vera e rivoluzionaria perla di canzone d’autore in siciliano), non poteva essere altrimenti. Approcciando la rilettura dell’opera, il cantautore siciliano ne ha riportato in luce l’essenza, mettendo al centro le voci di Giulia Mei, Laura Mollica, Cecilia Pitino e Alessandra Ristuccia, incorniciandole con arrangiamenti minimali in cui protagonisti sono il pianoforte di Beatrice Cerami e le percussioni di Giuseppe Greco. L’ascolto ci offre l’occasione per ri-scoprire il disco in una luce completamente nuova dai tratti e dalle sfumature inedite e non meno affascinanti dell’originale. Ad introdurci al disco è “L’infanzia di Maria” (“Scùrrinu, scùrrinu li so’ capiddi/comu ciumara di sita e di stiddi/avi la peddi bianca di linu/lustru di suli a primu matinu”), scandita dall’incessante arpeggiare del pianoforte, che esplode - innescato da un incastro vocale portentoso e da un pattern ritmico incessante - nel bridge del pezzo. In chiusura, il recitato è affidato alla voce calda e profonda di Edoardo De Angelis. “Il ritorno di Giuseppe” (“L’occhi sicca ‘sta chianura/ca fu petra ‘sta sirratura/ macinata è la ciaca/di lu tempu ca mai s’abbaca”) è affidata, anche in questo caso, al solo pianoforte, che la veste di nuovi colori, ritmicamente meno marcati, ma climaticamente più rarefatti e languidi. Tutt’altra atmosfera, invece, su “Il sogno di Maria” (“Mi dumannò “Chi nni sai di la ‘stati?”/e fu p’un jornu o p’un mumentu:/vitti currennu culuri di ventu”): l’incontro fra le nuances oniriche della canzone ed il pathos interpretativo di Giulia Mei crea un’alternanza pazzesca, resa quasi tempestosa dal crescendo timbrico del pianoforte, che si spegne sul finale, giusto in tempo per ricordarci che “i vecchi, quando accarezzano, hanno il timore di far troppo forte”. A completare la prima parte del concept è, come allora, “Ave Maria” (“Fimmina fu picchì nascissi amuri/poviru o riccu, servu o Redenturi/Fimmina fu, e poi matri pi’ sempri/quannu è lu tempu ca lu tempu nun senti”). Anche in questo caso, a risaltare è la commovente complicità delle voci, che poggiano su un toccante e magnifico arpeggio di pianoforte. “Maria nella bottega del falegname” (“A ‘sti ferri nun cumannu/fati lisciu e tagghiu/p’aggrizzari cu si torci/pi’ curaggiu o sbagghiu/ma du cruci pi cu latru/‘nguerra un vosi ijri/chista granni pi’ cu dissi/“a guerra av’a finiri””) è immediatamente resa militaresca dalle ossessionanti percussioni che, insieme ai bassi del pianoforte, scandiscono la ritmica. Un ventoso sfumato sui piatti lancia i due ritornelli, che, nel dedalo di voci chiamate a comporli, trovano la loro componente straniante. Su “Via della croce” (“E la to’ parola purtata a bannera/ ognunu la cunta dicennu ca c’era/ma prima aspittò ca passassi la china/di travu, di chiovu e di spina”) un secco e arido tappeto ritmico fa da contrappunto al turbinoso pianoforte che scandisce l’incedere della via crucis. Un arpeggio di pianoforte umido di pianto accompagna l’emozionante interpretazione di “Tre madri” (Pi mia si figghiu, vita ‘nnuccenti/fusti lu suli di lu me ventri/comu a la naca e ora ‘ncruci/ti chiamu amuri c’anticchia di vuci”), brano che, nella sua trasposizione dialettale, si gonfia ulteriormente di dilaniante umanità. Chiude il disco “Il testamento di Tito” (“Veni pietà, leva raggia e rancuri: matri, mi ‘nzignavi l’Amuri!”), sostenuta nella sua architettura strumentale, ancora una volta, da un forsennato pianoforte e dinamizzato dalle percussioni. Splendida, in fase di traduzione, l’idea di lasciare ogni comandamento in italiano, cui si contrappone la rabbia del siciliano, quasi a sottolinearne ulteriormente l’ipocrisia autoassolutoria. In conclusione, siamo di fronte ad un album militante, un’opera di resistenza culturale che rimette al centro le parole, i pensieri e gli studi di Fabrizio De André, dall’attualità abbagliante di un album epocale, dal suo rivoluzionario messaggio d’amore, quanto di più politico possa esserci. Un lavoro che nella scelta maniacale delle parole, nel suo cesellarle, si fa manifesto di una resistenza letteraria fortunatamente piena di aggettivi, e che diventa, nelle interpretazioni perfette delle sue voci, un vero e proprio vademecum di teatralità nella canzone. L’album è stato pubblicato in vinile, accompagnato da un corposo libretto con tutti i testi ed è disponibile per l’acquisto sul sito https://www.francescogiunta.it
 

Giuseppe Provenzano

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