Alessia Tondo – Sita (Ipe Ipe Music, 2021)

Enfant prodige della scena musicale salentina, Alessia Tondo ha cominciato a muove i primi passi nel mondo della musica cantando, insieme alla nonna, nel gruppo Mera Menhir, per poi segnalarsi al grande pubblico collaborando con i Sud Sound System nel brano “Le radici ca tieni”. Da quel momento la sua carriera ha preso il volo, arrivando a tredici anni a calcare il palco de La Notte della Taranta come cantante solista dell’Orchestra Popolare, sotto la direzione dei maestri concertatori Ambrogio Sparagna che ne colse il talento, Mauro Pagani, Ludovico Einaudi, Goran Bregovic, Giovanni Sollima, Phil Manzanera, Carmen Consoli e Raphael Gualazzi. Parallelamente ha collaborato con l’Orchestra Popolare Italiana di Sparagna e nel 2006 ha dato vita con Emanuela Gabrielli e Carla Petrachi al progetto Triace con cui ha inciso due dischi tra cui “Incanti e Tradimenti”, prodotto da Elena Ledda per S’ard Music. Gli anni successivi sono stati caratterizzati dalle collaborazioni con i Radiodervish in “Yara” nel disco “L’immagine di te” del 2008, Michele Lobaccaro in “Donna di frontiera” da Messa Laica dedicata a Don Tonino Bello, Ludovico Einaudi per il quale ha firmato il testo in dialetto salentino di “Nuvole Bianche” dal disco “Taranta Project, Admir Shkurtaj nell’opera “Kater i rades. Il naufragio”. Nel 2015 arriva un'altra svolta nel suo cammino artistico con l’approdo, come cantante ed autrice, nel Canzoniere Grecanico Salentino, guidato da Mauro Durante con il quale nel 2018 ha vinto il prestigioso Songlines Music Awards. Mancava ancora un disco come solista e, complice anche i giorni del lockdown, è nato “Sita”, piccola perla per voce, corde ed elettronica nel quale ha inciso otto brani in cui spiccano le collaborazioni con Mauro Durante e Redi Hasa. 
Abbiamo intervistato la cantante salentina per ripercorrere con lei la sua formazione artistica e le collaborazioni, nate negli anni, e soffermarci sulla genesi e le ispirazioni di questa sua opera prima.
 
Partiamo da lontano, come ti sei avvicinata al mondo della musica ed in particolare a quella tradizionale salentina?
Ho iniziato a cantare all’età di sei anni con il gruppo di musica popolare Mera menhir. La mia famiglia, mia nonna, i mie zii, erano parte del gruppo. Si occupavano di ricerca nel territorio in cui vivo.

In che misura l’esperienza del trovarti a cantare presto in pubblico e già da adolescente su palchi prestigiosi ha influito sulla tua formazione artistica e sul tuo rapporto con la tua terra?
 Ritrovarsi da piccola in contesti “da adulti” non è sempre una cosa semplice. Oltre all’esibizione in sé, c’è l’aspetto della produzione che prevede giorni o mesi di lavoro. L’ambiente lavorativo è stato sempre abbastanza positivo, abbastanza, non del tutto. E certamente quando si è piccoli non si hanno i mezzi necessari per comprendere sempre a pieno cosa succede attorno. Per mia fortuna, ho sempre vissuto in modo molto naturale tutte le dinamiche lavorative e relazionali, ma mi rendo conto che quello che mi agevolava era il carattere iper-riflessivo e riservato, oltre che il supporto indispensabile della mia famiglia. I grandi palchi da adolescente mi hanno consentito (e in qualche modo obbligato) di crescere in fretta, comprendendo bene e presto cosa evitare e cosa dovessi “proteggere” per rispettarmi. 
Il rapporto con la mia terra non è stato sfiorato dal mio lavoro, è cambiato col passare del tempo, il rifiuto è diventato tristezza e accettazione, la rassegnazione è diventata dapprima rabbia e poi profondo amore. È il rapporto con la mia terra che influenza il mio lavoro, non il contrario. 

Hai avuto modo di collaborare con Ludovico Einaudi sia sul palco de La Notte della Taranta, sia in studio incidendo una splendida versione con il tuo testo in salentino di “Nuvole Bianche”. Quanto è stato importante per te questo incontro?
Quella con il maestro Einaudi è stata una magia. Non avevo ancora dato troppa importanza alla mia scrittura. Era capitato di scrivere testi, tanti, ma non avevo mai pensato che quello potesse essere considerato un piccolo talento da coltivare e nutrire. Il testo di Nuvole Bianche è stata per me una grande sorpresa. Non è stato immediato accettare che avrei potuto scriverlo senza troppi intoppi. È stato quando mi sono detta che “potevo farlo” che è venuto fuori in modo naturale. Ho compreso quanto la mia lingua potesse adattarsi in modo molto delicato a qualsiasi genere musicale, ho compreso che potevo continuare a scrivere, ho compreso che poteva valerne la pena. Sono grata al Maestro Einaudi per la fiducia e per la voglia che ha avuto di donare una nuova veste al brano. 

Che peso ha avuto la bella avventura con le Triace, durata purtroppo lo spazio di due dischi di cui l’ultimo “Incanti e Tradimenti”, prodotto da Elena Ledda?
Loro sono state la mia prima vera esperienza di gruppo, di band. È stato molto educativo, ho avuto modo di imparare a comporre a più mani, rispettando la creatività e le esigenze musicali di tutte e di tutti. Abbiamo avuto l’opportunità di viaggiare insieme, di condividere esperienze meravigliose. Sono stati dieci anni, quelli di vita di Triace, in cui ognuno ha potuto misurarsi con la propria evoluzione artistica e personale e mettendola al servizio degli altri. Triace è stata un’esperienza umana e musicale pazzesca. Con le mie colleghe, fondatrici insieme a me del progetto, abbiamo imparato cosa volesse dire “amalgamarsi”, mettere la propria voce e le proprie orecchie al servizio delle altre voci.

Vuoi raccontarci la tua esperienza con Canzoniere Grecanico Salentino? Che influenza ha avuto sul tuo percorso come solista?
È stato un onore per me prendere parte al percorso di crescita del canzoniere. Ho avuto modo di girare per il mondo con i miei sei colleghi (Mauro Durante, Francesco Aiello, Emanuele Licci, Giancarlo Paglialunga, Massimiliano Morabito e Giulio Bianco) e la mia collega (Silvia Perrone). Ho trascorso con loro gli ultimi sei anni in tour. È cresciuta insieme a loro e durante i nostri lavori la mia consapevolezza vocale. Lavorare in team è sempre molto affascinante per misurarsi con le diverse sensibilità ed esigenze ed io ho avuto la possibilità di crescere, sbagliare, mettermi in discussione e osservare il mondo con gli occhi miei sempre diversi. Sono molto legata al Canzoniere per tutto quello che di bello abbiamo visto, assaporato, suonato e condiviso. 
Certamente il mio modo di vivere il mio lavoro, la scrittura e il canto, sono cambiati in questi sei anni. Ho sempre osservato molto il lavoro dei miei colleghi, cercando lasciare qualcosa di positivo di me e prendendo da loro. Scambi indispensabili per continuare a nutrire entusiasmo e stimoli. 

Sin da giovanissima ti sei mossa attraverso generi musicali differenti. In quale ambito musicale ti riconosci maggiormente?
Non saprei dirlo. Certamente il linguaggio della musica popolare è quello che ho scelto, ma il reggae salentino dei Sud Sound System si è legato alle mie vene e mi rendo conto di usare spesso dei codici che appartengono a quel mondo.

Hai definito “Sita” il tuo primo album come solista “un rito di guarigione”. Ci puoi raccontare la genesi di questo lavoro?
Parlo di “Sita”, un disco nato in solitaria, come l’esorcizzazione del “malepensiero”. La narrazione di un rito di guarigione che rende reale, grazie al racconto, il passaggio dall’ombra alla luce, una sorta di morte e rinascita. La consapevolezza che mettere a posto “dentro” consente di aggiustare “fuori” recuperando la funzione terapeutica che musica e riti hanno. La scrittura e il canto sono per me mezzi espressivi con cui accarezzare e proteggere le emozioni. Restando sola e in silenzio ho compreso che molti di noi hanno emozioni che non solo hanno bisogno di esser ascoltate e coccolate ma anche guarite. E così è nato “Sita”.

Quali sono stati i riferimenti musicali e culturali a cui hai attinto per la realizzazione di “Sita”?
Tutti gli incontri che ho avuto modo di fare in questi anni di lavoro, i dischi che ho ascoltato, le collaborazioni che ho avuto e il mio modo di tradurre tutte queste esperienze. Quelli culturali provo a citarli. La mia terra e le tradizioni a cui sono legata hanno scritto parte dei brani del disco. Il mio studio sulle medicine naturali e l’approccio allo shiatsu ne hanno scritti degli altri. Il recupero di un’identità femminile legata ai riti di guarigione ne ha scritti degli altri ed io, insieme ai grovigli da sciogliere, altri ancora.

Come si è indirizzato il tuo lavoro di ricerca sulla voce in questo disco?
Parlando di cose molto più semplici e di cui tutte e tutti possiamo fare o abbiamo fatto esperienza, sappiamo che la voce può tranquillizzare, agitare, donare quiete. Da tempo oramai cerco di comprendere quale sia il modo, non solo espressivo, ma anche prettamente tecnico, per fare in modo che ci sia “quiete”. È una sensazione che cerco di coltivare oltre che donare. È stata una mia preoccupazione quando ho approcciato alla composizione dei brani di Sita. Il racconto parla della mia ricerca di “andare dentro” e “stare con me”, le modalità tecniche per poter fare in modo che il raggiungimento della sensazione di “quiete” potesse essere una sensazione da donare e non solo percepita, sono state modalità scelte che hanno imposto sussurri, silenzio e altre piccole accortezze che dessero la sensazione di parlare all’orecchio. 
Questo è stato aiutato dal lavoro di Francesco Aiello che ha cercato di annullare il suono dell’ambiente che avevo attorno e mi ha consentito di sfruttare quanto più possibile la sensazione di prossimità tra la mia voce e il microfono. Da dosare erano i respiri e anche i rumori (data la mia misofonia). È stato un lavoro certosino ma molto molto naturale e divertente. 

Quanto è stato importante l’utilizzo della tecnologia in questo album?
All’inizio molto poco. Sussurravo sugli accordi della chitarra. Successivamente ho iniziato a giocare con un computer, un microfono e una scheda audio. Certamente, avere un minimo di apparecchiature in casa mi ha consentito di curare la pre-produzione in autonomia prima di andare in studio. Questo mi ha permesso di avere le idee chiare fin da subito sulla durata dei brani, sulla scaletta, su quello che sarei andata a fare in sede di registrazione.

Al disco hanno collaborato Mauro Durante e Redi Hasa. Quanto è stato importante il loro contributo?
Indispensabile. “Sita”, il disco nato in solitaria, aveva bisogno però di dialogare con qualcuno. I brani hanno chiesto l’amicizia e la dolcezza e la sensibilità di Mauro e Redi. 

Dal punto di vista compositivo come hai approcciato la scrittura dei testi? Quali sono gli addentellati con la tradizione e quelli prettamente musicali?
La modalità di scrittura è in parte legata a quello che ho assorbito della cultura popolare salentina aiutata dai bellissimi limiti che impone il mio dialetto durante la costruzione delle frasi. Come molti dialetti, non abbiamo la coniugazione al futuro. Il dialetto impone la ricerca del passato per catapultarsi e imparare ad accettare il “qui e ora” senza potersene allontanare mai. La musica poi si mette al servizio della parola. 

L’uscita del disco è stata anticipata dal singolo “Aria” che si sviluppa in un crescendo di sovrapposizioni vocali. Com’è nato questo brano?
Giocando. Ho acceso il computer e… è nato! Non avevo dubbi dovesse essere Aria il singolo che raccontasse, anticipasse e riassumesse il percorso di Sita.Ho dovuto accettare di comporre un brano che non avesse una struttura canzone. Ma non poteva che essere così. Due me parlavano. E le ho lasciate dialogare. 

C’è un brano di “Sita” a cui sei particolarmente legata?
Sono tutte mie fotografie. Sono legata a tutti i brani per motivi e ricordi di istanti diversi. 

L’asse portante del disco è rappresentato da “A pucundria”, “A pucundria rimedio” e “Cacciala fore”, tre brani in cui sperimentazione e ricerca coniugano una particolare cura per la melodia e le ambientazioni sonore. Ci puoi raccontare questi tre brani?
Come per tutti i brani, l’esigenza è stata quella di fotografare un preciso istante emotivo che doveva in qualche modo essere osservato, sgrovigliato, esorcizzato e che doveva poi evolversi. 
Quei tre brani sono dei passaggi che raccontano di una condizione iniziale di presa di coscienza e non accettazione, visualizzazione dell’alternativa e scoperta dell’antidoto, “rimedio” e guarigione. Tutti e 8 i brani raccontano i piccoli passi che portano a “filastrocca” (la scoperta che la propria forza interiore cambia eventi attorno e mondo intero). Questi tre in particolar modo sono dei porti un po’ più grandi dove il racconto intimo e introspettivo e la ricerca melanconica esplode nella presa di coscienza, nella ricerca della soluzione. 

La scelta di realizzare un disco dalla durata breve, quasi da EP è stata dettata dal particolare concept alla base di questo lavoro o si tratta di un progetto in divenire?
È un piccolo racconto all’interno della cui durata doveva compiersi un rito. Il rito si è compiuto in otto tracce. Sono certa sarà un progetto in divenire. Parla di me. Mi auguro avrò voglia di continuare a raccontarmi.

Con il Canzoniere Grecanico Salentino sei impegnata spesso in tour. “Sita” avrà una sua vita dal vivo? Come lo porterai sul palco?
Sono stata in giro per dei concerti di presentazione del disco. Per i live viaggiamo in due, io e Francesco Aiello (tecnico del suono). Sono da sola sul palco insieme alla mia chitarra, ai miei tamburi e ad una splendida macchina che amo chiamare “bestia” della Headrush che mi consente di costruire dal vivo i brani del disco un po’ più elaborati. 


Salvatore Esposito, Alessio Surian e Ciro De Rosa

Alessia Tondo – Sita (Ipe Ipe Music, 2021)
Otto brani originali per poco più di venti minuti di ascolto, tanto basta per capire che “Sita”, opera prima come solista di Alessia Tondo, è uno di quei dischi che ti entrano dentro, ascolto dopo ascolto. Sperimentazioni vocali, avanguardie elettroniche e atmosfere acustiche rarefatte sono i pilastri di una architettura sonora solida in cui la vocalità intensa e, ormai matura, della cantante salentina emerge in tutto il suo fascino. Concepito e sviluppato come il racconto in musica di un personale rito di guarigione, una rinascita che passa attraverso la rabbia, il dolore, le ansie, le paure e le sofferenze di cui pian piano si libera fino ritrovare l’amore nella sua accezione più ampia. In questo senso, non è casuale la scelta della copertina e del titolo che in dialetto salentino rimanda al melograno che la tradizione vuole simbolo di buon augurio ma anche di incontro e condivisione. Nelle note di accompagnamento al disco, la cantante salentina scrive: “”Sita” è il mio buon augurio affinché ognuno trovi la propria narrazione del rito di guarigione, che ciascuno possa raccontarsi di poter guarire e intraprendere il cammino che dall'ombra e il buio porterà alla luce e alla guarigione. Ed è un augurio affinché si abbattano le distanze e ci si senta uniti”. Prodotto da Domenico Coduto per Ipe Ipe music, l’album si caratterizza, sotto il profilo musicale, per una particolare cura per l’ambientazione sonora dei brani con atmosfere rarefatte e minimali che si alternano a spaccati quasi magici e misteriosi che impreziosiscono i testi firmati dalla stessa cantante salentina. Si colgono anche addentellati con la cultura e la magia popolare, quella indagata da Ernesto de Martino in “Sud e Magia” e che Alessia Tondo declina al futuro trasfigurandola in una chiave visionaria in cui loop e pattern incontrano voce e corde, tra ballate e canti che sembrano venire dal passato e una ricerca sonora moderna ed attuale. L’ascolto si apre con “A pucundria” per sola voce ed elettronica che ci introduce alla riflessiva ballad “Me putia basta”, impreziosita dal violino di Mauro Durante, e il cui testo racconta di come si possa soccombere all’insoddisfazione e all’insofferenza (“me putia bastare iddhra e stelle lucenti, me putia bastare e nun me basta nienti). Si prosegue con le sperimentazioni vocali di “Aria” con la voce in loop a costruire l’impianto ritmico che sostiene il profondo lirismo del testo in cui si canta del bisogno di libertà (“pace nun c’era cchiui mo serve aria”). La ballata acustica “Pacenza”, un canto di non amore appassionato (“pacenzia vita mia se non’ha ulutu bene”) e il breve frammento “A pucundria rimedio” per voce, loop e tamburo a cornice, ci introducono al crescendo di “Cacciala fore” che suona come un invito a liberarsi dalla malinconia (“Ca poi ci rria malincunia cacciala fore è malatia”). L’incontro con il violoncello di Redi Hasa nella splendida “Sta notte” e l’appassionante “Filastrocca” per sola voce chiudono un disco di grande spessore, un primo e significativo passo per il percorso come solista di Alessia Tondo.


Salvatore Esposito

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