Vincenzo Santoro, Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale, Itinerarti 2021, p. 256, Euro 16,00/Sergio Bonanzinga, Gino L. Di Mitri, Marco Lutzu, Goffredo Plastino, (a cura di) Vincenzo Santoro, Percorsi del tarantismo mediterraneo, Itinerarti 2021, p. 176., Euro 14,00

Quali sono le differenze che caratterizzano il tarantismo nelle varie regioni in Italia?
Il primo problema da affrontare quando si tratta di tarantismo è eminentemente cronologico, perché non è solo un fenomeno che varia a seconda della geografia, ma muta anche attraverso la storia. Il tarantismo pugliese delle fonti rinascimentali, quello trattato da Leonardo da Vinci, Leon Battista Alberti e Baldassarre Castiglione, è ben diverso da quello che cinquecento anni dopo osserva de Martino. 
A seconda delle caratteristiche, nelle fonti antiche non c’è un problema di genere ma si parla esclusivamente di tarantati, mentre nel Seicento si comincia a far riferimento alle donne. In Salento, ma pure nel resto della regione, coinvolge prevalentemente, non esclusivamente, le donne, mentre in altri posti, come in Spagna o in Sicilia, è propriamente maschile.

Eppure, c’è chi sostiene che sia solo un fenomeno femminile...
Questo aspetto ha un poco dell’assurdo e lo affronto diffusamente nell’ultimo capitolo. La domanda che mi sono posto è semplice: perché quando in una foto sono ritratti una tarantata e un tarantato si parla sempre di tarantate al femminile? Pare proprio si attivi una sorta di pregiudizio, ed è significativo capire quando e perché si sia generato, tenuto presente che lo sguardo sul fenomeno è stato in larga maggioranza maschile. Negli ultimi anni ne ho peraltro riscontrato un’ulteriore degenerazione, con deduzioni davvero poco credibili. 

Altro elemento fondamentale è il culto paolino.
L’innesto sul tarantismo, inteso come rito coreutico, musicale e cromatico, della richiesta di grazia a San Paolo – recandosi nei giorni della festa alla cappella di Galatina e bevendo in conclusione l’acqua del pozzo “miracoloso” – è una pratica che si realizza solo in provincia di Lecce, e le prime tracce risalgono alla fine del Settecento. Prima di allora il tarantismo con i santi non aveva nulla – o quasi - a che fare e negli altri posti in cui si è diffuso è rimasto slegato dalle dinamiche devozionali strutturate. Che ci fosse qualcuno che invocasse un santo in particolare è plausibile, ma non era un tratto discriminante e sostanziale. A questo proposito, in alcune fonti si trovano anche tracce di invocazioni a San Pietro o riferimenti al saio dei francescani – non dei Cappuccini ¬ quale strumento di cura dal tarantismo. E le differenze non si limitano a queste. 
Nella Puglia settentrionale, ad esempio, sono testimoniati episodi di trance collettiva (e non individuale come nel Salento), come riportato dallo stesso de Martino. Mancano invece fonti dirette riguardo al tarantismo in Molise in Abruzzo, mentre in Lucania, a Venosa, si registra un imponente esempio di trance collettiva. La mia idea, quindi, è che arcaicamente esistesse un tarantismo molto vario, di cui si conservano elementi di continuità. Ad esempio, nel tarantismo in Cilento, come in quello sardo e in parte in quello dauno, c’è anche il tema dell’inversione sessuale, con uomini che si travestono da donne e viceversa. E lì c’è la rappresentazione, in Salento del tutto assente, della tarantola incinta, che richiede al tarantato – uomo – di simulare un parto e porsi in mezzo alle gambe un pupo di pezza, pratica assimilabile ad azione carnevalesche, come sostenuto da Clara Gallini. Solo come ultimo esempio, nel tarantismo cilentano si realizza una profonda connessione con le anime dei morti, cosa che si riscontra anche in Sardegna.

Soffermiamoci ora sui repertori musicali.
Quelli antichi sono oggetti indefiniti perché le fonti evocano nomi di suonate e musiche di cui però non conosciamo il significato. Ad un certo punto, nel Seicento, viene introdotta la tarantella, poi formalizzata da Athanasius Kircher con le prime trascrizioni musicali, per cui uomini di cultura di molti Paesi scrivevano che per curare il tarantismo occorreva, di necessità, usare la tarantella. Ad uno sguardo più approfondito, emerge però, come diceva Jean Jacques Rosseau, quanto ogni località abbia la sua propria divisa musicale. In Spagna, e in particolare in Aragona, per la cura si usava una loro danza tradizionale: la Jota; ugualmente in Sardegna i balli popolari del posto. Inoltre, in uno storico testo di medicina popolare perugino, “La medicina delle nostre donne” di Zeno Zanetti (1892), molto affrontato in antropologia
medica, ma di cui stranamente non è mai stata valorizzata la riflessione sul tarantismo, si legge che per la cura dai morsi dei ragni era efficace il ballo del trescone. Sta di fatto che l’attenzione colta secentesca accelera a macchia d’olio la diffusione delle tarantelle, anche perché contestualmente dal colto precipitano nel popolare. Quindi in Spagna nasce un interessantissimo filone di tarantella colta. Poi abbiamo anche un incredibile caso americano dei primi dell’Ottocento, per cui i medici, avendo letto Baglivi e Kircher, riscontrarono sintomi del tarantismo su una ragazzina chiamata Nancy, decidendo di curarla usando la musica. Magari le suonarono qualcosa di diverso dalla tarantella, ma pare che funzionò lo stesso. 

Molto curioso è anche il tarantismo d'acqua…
È presente a San Vito dei Normanni (Br) e in tutta la zona del tarantino e dell’alto brindisino. I tarantati bramavano l’acqua e chiedevano di essere immersi nudi in tinozze o proprio in mare. C’era il desiderio struggente di gettarsi in acqua, fino alla curiosa scena di un tarantato, portato su una barca, che si mette a ballare, mentre gli altri lo tengono per non farlo cadere in acqua. Riporto anche un’importante quanto semisconosciuta testimonianza quattrocentesca dell’umanista Elisio Calenzio, che fra le altre cose riferisce, credo per la prima volta, di questa peculiarità.

La tua analisi si è soffermata anche sulla descrizione dei diversi rituali del tarantismo.
Mi sono concentrato in particolare sulle fonti frutto di osservazione diretta, piuttosto che sul dibattito interpretativo. La letteratura sul tema si divide grossomodo in tre filoni: chi osserva e descrive, chi ne discute senza avere assistito, e quanti si dedicano ad entrambe le attività. Il rito, leggiamo in più autori, prevedeva l’allestimento di un contesto colmo di richiami simbolici, ad esempio per rimandare al luogo del morso: se era accaduto vicino ad un fico si metteva una foglia di quell’albero, pampini di vite se si trattava di una vigna. Poi c’erano gli specchi e le spade, ricorrenti in antiche ricostruzioni. In alcuni casi ci si appendeva al soffitto con delle corde, come a Novoli, paese poco a nord di Lecce. 
Conosciamo insomma una complessità gestuale e scenografica assai più ricca di quanto osservato a Nardò dall’équipe dematiniana, dove c’era solo la musica, il ballo e l’invocazione a san Paolo. 

Soffermiamoci, ora, sul tema del falso tarantismo.
È uno dei temi che ricorre con più frequenza fra i commentatori. A volte si accusavano le donne di simulare di essere tarantate per concedersi licenze sessuali, come riportano – con una punta di misoginia – Giovanni Pontano alla fine del ‘400 e altre fonti anche nei secoli successivi. In altri casi l’accusa era di fingersi tarantati per chiedere l’elemosina, oppure per “fare teatro”. C’è poi una fonte esilarante, riportata da Brizio Montinaro, del falso tarantismo usato addirittura per evitare il servizio militare. Insomma, c’è di tutto e di più.

Veniamo al secondo volume “Percorsi del tarantismo mediterraneo”. Come si integrano i vari saggi presenti con il tuo percorso di ricerca?
Nel secondo volume sono presenti i saggi sul tarantismo siciliano e sull’argia, temi da me trattati in modo più sintetico. Rispetto al lavoro di Plastino sulla Calabria, ho cercato invece di approfondire maggiormente le fonti precedenti, avendo quest’ultimo preso in esame un corpus di fonti più recenti. L’idea è quella di organizzare prossimamente delle occasioni di confronto, in cui trattare magari in modo più specifico ulteriori territori, anch’essi ricchi di fonti antiche ancora da affrontare, a partire dalla Spagna. 

Quali sono state le fonti che ti hanno maggiormente incuriosito?
Mi sono divertito molto perché ho avuto modo di trovare diverse fonti poco note agli studiosi, a partire da Elisio Calenzio fino a Leonardo da Vinci, del quale ho riportato alcuni passaggi poco noti. In questo senso emerge come del tarantismo nel Rinascimento ne parlassero praticamente tutti e la cosa più eclatante è che c’è un passaggio significativo e complesso nel “Cortigiano” di Baldassarre Castiglione, best seller europeo del periodo, tradotto in più lingue. Altro elemento di grande interesse è l’attenzione che raccolse nella Napoli del Quattro-Cinquecento, dove si occuparono del tarantismo tutta una serie di intellettuali, guidati dal grande umanista Giovanni Pontano, tra cui il Galateo, che dovrebbe essere la prima fonte salentina diretta. Si tratta di autori poco conosciuti, anche perché poco tradotti dal latino, e ho la certezza che ci sia altro ancora da scoprire. È proprio in quest’epoca che lo stereotipo della tarantola si impone a emblema della nostra regione e trova la sua rappresentazione nella suggestiva immagine contenuta nella celeberrima Iconologia di Cesare Ripa, con la Puglia rappresentata con un vestito coperto di ragni e gli strumenti del rito ai piedi. Nel Settecento avviene un ulteriore passaggio che assimila il tarantismo alla stranezza intrinseca ai pugliesi! Quando arriva a rappresentare un’anomalia, ma come disordine, e non più le meraviglie della natura, diventa uno stigma negativo che si riferisce o alla superstizione o alle condizioni di vita e alla povertà estrema. 

Nell’ultimo capitolo affronti criticamente alcune ricerche tra cui alcuni aspetti di quella del de Martino...
Mi soffermo in particolare su questo sguardo a volte parziale – e forse un po’ esotistico ¬ che mi pare si ritrovi La terra del rimorso, per cui ai tarantati non si lascia mai la parola, non si capisce cosa votano, la
loro appartenenza alla vita politica o sindacale non esiste, sembrano quasi contadini medioevali. Nel testo non ci sono tracce delle tabacchine che partecipano agli scioperi. Tutto questo è molto strano perché ci troviamo in una provincia dove si sviluppò un forte movimento sindacale delle lavoratrici del tabacco e a Nardò, nell’Arneo, solo qualche anno prima c’era stato il finimondo, con l’occupazione delle terre e tutto il resto. Ho riletto i taccuini dell’epoca, il saggio “Etnografia del tarantismo pugliese” con i documenti preparatori, i verbali delle riunioni che facevano; ci sono anche altre dense interviste che non sono state incluse ne “La terra del rimorso” ma comunque quasi mai emerge l’aspetto politico, tranne in qualche piccolo caso. C’è anche una incredibile coincidenza in questo senso, perché quando l’equipe va a Galatina nel 1959, il sindaco chiude il pozzo di San Paolo perché l’acqua era malsana. Il sindaco era comunista, il primo ed unico comunista ad essere eletto a quella carica, e de Martino ne era a conoscenza ma tralascia di riferire questo particolare. Sembrerebbe praticata una continua autocensura che colloca le comunità attraversate fuori dalla storia e slegate dal reale. Ho poi provato a porre al vaglio critico altre questioni, quali il continuo “leccesismo”, riflesso di conseguenza nei ricercatori locali, che ha portato anche alla rimozione di ricercatori come il tarantino Alfredo Majorano, al quale si devono le prime registrazioni e a lui è intitolato un museo nel capoluogo jonico che conserva un violino utilizzato nella terapia del tarantismo. La prima registrazione è proprio la sua – del 1950 – ma c’è la tendenza a guardare a “La terra del rimorso” come momento fondativo della costruzione di un paradigma assolutizzante. Ne è un esempio la centralità acquisita dal rapporto tra tarantismo e San Paolo, che non può essere generalizzato. Inoltre, non si comprende come possa entrare in crisi il tarantismo con il sincretismo paolino nelle aree in cui non esiste questo culto. Occorre però rileggere il pensiero demartiniano in tutta la sua complessità: avrebbe molto altro ancora da dirci. 


Vincenzo Santoro, Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale, Itinerarti 2021, p. 256, Euro 16,00/Sergio Bonanzinga, Gino L. Di Mitri, Marco Lutzu, Goffredo Plastino, (a cura di) Vincenzo Santoro, Percorsi del tarantismo mediterraneo, Itinerarti 2021, p. 176., Euro 14,00
L’approccio allo studio del tarantismo richiede non solo la capacità di destreggiarsi tra molteplici fonti di epoche e taglio differenti, ma anche uno sguardo di insieme sulla sua articolata complessità. Sebbene ne “La terra del rimorso” e in alcuni scritti successivi, Ernesto de Martino inquadri il fenomeno in un contesto storico e geografico ampio, con riferimento alle grandi isole italiane e alla Spagna, la sua ricerca sul campo restò confinata alle pratiche rituali del Salento legate al culto di San Paolo a Galatina. Ciò ha determinato, negli anni successivi, il concentrarsi degli studi unicamente in quell’area, tralasciando le fonti che ne documentavano l’esistenza in tutta l’area del Mediterraneo. Lo studio di fonti documentali poco praticate dai ricercatori ha riportato alla luce la diffusione del tarantismo in tutta la Puglia, in Campania e più in generale nel Sud Italia, ma anche in Sardegna, Sicilia e Spagna, senza contare le diverse analogie con i rituali dell’area nordafricana e islamica e finanche un episodio documentato negli Stati Uniti. A sessant’anni dalla pubblicazione della monografia demartiniana, arriva nelle librerie “Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale”, saggio firmato da Vincenzo Santoro per i tipi di IntinerArti, nel quale ci offre uno sguardo inedito e plurale sul tarantismo, analizzato nella sua articolata fenomenologia attraverso un’indagine che attraversa l’intero bacino del Mediterraneo occidentale. Basandosi su fonti bibliografiche che abbracciano un ampio arco temporale che parte dal Quattrocento e arriva all’epoca moderna, l’autore ricostruisce in modo sistematico la rete rituale mediterranea documentata nelle sue diverse declinazioni nel Rinascimento e ridotto nei secoli successivi a stereotipo etnico. Privilegiando le fonti storiche in cui è documentata l’osservazione diretta delle rappresentazioni del rito, Santoro si sofferma sull’uso della musica e del canto nelle diverse declinazioni territoriali.  L’indagine prende le mosse da Taranto, vera e propria “capitale” del tarantismo e in cui la prassi rituale è rimasta viva fino agli anni Settanta del Novecento. Interessante in questo senso è la testimonianza dell’umanista Elisio Calenzio che già nel XV secolo, documentò il fenomeno proprio a Taranto, dove risiedette, e ne lasciò traccia nelle sue “Epistolae ad Hiaracum” dove si legge: “alcuni chiedono di essere sepolti vivi, altri di essere trascinati per i piedi per la città, altri allo stesso modo per il mare, perché altrimenti morirebbero. C’è chi gradisce barche o battelli con canti e musica, c’è chi cerca sesso, chi lo rifiuta, chi mangia di continuo, chi fa qualcos’altro di ignobile”. Allo stesso modo è curioso quanto emerge da “Delizie Tarantine” opera postuma di Tommaso Niccolò D'Aquino, pubblicata dal Carducci del 1771 dove viene raccontata la curiosa storia di padre Antonio Minasi che, nella sua cella del Convento di San Domenico, allevava tarantole di ogni specie per studiarne l’anatomia e il veleno. L’indagine prosegue nell’alto Salento e nel brindisino dove era presente un tarantismo originario, slegato dal culto di San Paolo, così come emerge anche dalle fonti relative alla Campania, a cui è dedicato il secondo capitolo. Dalle discussioni erudite nella Napoli rinascimentale, vengono ripercorse le tappe del lungo viaggio della tarantella e le modalità in cui la musica popolare è confluita in quella colta. L’autore prende, poi, in esame il contributo di Francesco Serao, medico dell’Accademia delle Scienze di Napoli che nel suo approccio positivista al fenomeno mise in luce gli addentellati con i culti orgiastici. Giungendo al Novecento, vengono illustrati gli esiti delle ricerche condotte da Annabella Rossi in Cilento con riferimento alle peculiarità locali con il fenomeno che investe in maniera uguale donne e uomini e l’ulteriore particolarità delle diverse tipologie rituali con le tarantole bambine che anelano di essere cullate, quelle “signorine” che pretendono di ballare e cantare ed ancora quelle gravide che provocano i dolori del parto. Si toccano, poi, il versante tirrenico e le isole maggiori, la Calabria dove è ambientato il racconto “La Tarantata” pubblicato nel 1837 dalla scrittrice inglese Catherine Grace Frances. Il viaggio prosegue in Sicilia e, poi in Sardegna con l’argia per giungere in Spagna. Non mancano testimonianze riguardanti anche la Dalmazia e Cipro, la trance para-statica delle Rusalii in Romania e lo studio comparatistico dei rituali di possessione in Africa e il Medio Oriente. Il volume prende poi in esame le fonti antiche con Tommaso Campanella, Vincenzo Bruno, Marsilio Ficino, Leon Battista Alberti, Baldassarre Castiglioni e Giovanni Pontano, ma anche le testimonianze di viaggiatori e letterati, per soffermarsi in una ampia trattazione degli aspetti musicali a partire dalle prime trascrizioni di Athanasius Kircher. 
L’ultima parte del libro è dedicata alla rivisitazione degli studi di Ernesto de Martino che ci introduce alle riflessioni critiche sul “paradigma galatinese del tarantismo” e della “femminilizzazione” del fenomeno che conferma come quest’ultimo riguardasse indistintamente sia uomini che donne. Strettamente connessa dal punto di vista tematico, e pubblicata in parallelo, è la raccolta di saggi “Percorsi del tarantismo mediterraneo” con la curatela dello stesso Vincenzo Santoro. Il volume riprende alcuni interventi relativi al convegno svoltosi a Nardò (Le) il 23 giugno 2019 e rappresenta una estensione ulteriore della ricerca sul tarantismo mediterraneo sotto il profilo prettamente scientifico. A riguardo il curatore scrive nell’introduzione “L’idea di fondo è quella di indagare la diffusione del fenomeno, che aveva nella Puglia la sua area elettiva, in altri contesti del Mediterraneo, restituendone una rappresentazione più complessa e plurale. In particolare, nei saggi di Sergio Bonanzinga e Goffredo Plastino vengono ricostruite le parabole del tarantismo siciliano e calabrese, a partire dalla pluralità  delle fonti storiche sul tema, mentre Marco Lutzu recupera l’argismo  sardo – riassumendo i risultati del vasto programma di ricerca intrapreso in base alle intuizioni di Ernesto de Martino e realizzato, negli anni sessanta del secolo scorso, da una équipe coordinata da Clara Galllini – nel cui caso invece la letteratura storica è limitata e ci si deve affidare prioritariamente alle fonti orali e alla sempre più  labile memoria depositata attorno alle pratiche culturali in azione. Infine, Gino L. Di Mitri conclude il viaggio ritornando sul tarantismo salentino per dipingere il potente immaginario evocato in età barocca dalle fitte relazioni di questo con le scienze della vita e la medicina”. Il risultato è un opera di assoluto interesse nella quale gli autori, attraverso visioni ed approcci scientifici differenti, offrono al lettore la possibilità di addentrarsi nell’approfondimento del tarantismo, superando gli steccati dello stereotipo, ponendosi in perfetta sintonia con il progetto editoriale e divulgativo di ItinerArti. 

Salvatore Esposito

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