Meditazione Corsara: Salento e Notte (buia) della Taranta

Scrivo queste brevi note al bar, di passaggio, agosto 2021, per un Salento invaso da ineffabili turismi giovanili, famiglie, masse scaricate da pullman interregionali, file prostatiche ai cessi dei bar, prenotazioni ovunque, notti rumorose, odore diffuso di creme solari misto, a sera, nelle piazze Spritz, a sentori di cannabis, e mi sovviene di una sera dell’inverno 2006 a cena a Melpignano con due protagonisti, in capo, della nascita e dell’evoluzione del Concertone salentino: il sindaco Blasi e la buonanima di Torsello, persona colta, raffinata e direttore dell’Istituto Diego Carpitella. Ospite della loro gentilezza, consigliavo (ero lì per questo!) una Notte della Taranta sul metro di festival analoghi nordeuropei. Festival, che selezionavano la massa innanzitutto con l’offerta culturale, che, fosse folk o musica moderna, evitando accuratamente il popular, il pop e il mainstream, che costruivano sistema aggregando via via forme diffuse di tradizione: auto narrazioni, liuteria, organologia, danza, letteratura, natura, cibo, arti contemporanee, poesia, questioni del femminile, accoglienza, ma allargandosi nella propria geografia per lenti cerchi concentrici. Il sasso nello stagno è dopotutto metafora culturale, dicevo. I due commensali apparentemente d’accordo, erano agiti da una specie di affanno (sapete, la rana che beve acqua per diventare grande come il bue) e qui parlo del sindaco, o vittime, entrambi, di un’idea, perdente e perduta, imposta da certa politica i cui antenati costruirono velenose cattedrali nei posti d’Italia tra i più belli del mondo. Un’idea sedotta dal fatterello che la cultura immateriale, così come la sedimentazione della bellezza, si possano incassare al volo e spendere in propaganda immediata, in effetto elettorale, muscolarizzandola e rendendola commestibile agli appetiti di noi vili consumantes. Non se ne usciva. 
“Ora
– ripetevano i miei ospiti – bisogna crescere”. In questo, i due, erano coadiuvati dal nascente cromosoma Vendola i cui immaginari carezzarono il neoliberismo d’assalto, dico io. Con un’idea di progresso ottocentesca, manchesteriana, considerandolo come fatto di espansione numerica all’infinito, orizzontale, per creare consumo, e, nel migliore dei casi, oggi, temporaneo benessere. Era un’idea di crescita che non poteva non influenzare anche un importante dettaglio come il Concertone di Melpignano. Intendo la sua concezione artistica. La Notte della Taranta, divenuta, per meriti degli ideatori e organizzatori, sia chiaro, moneta ballabile e spendibile, era, allora, l’Attrazione Regionale, il punto luce: ritmo, tradizione, notti stellate, cibo, mare e ospiti pop che si facevano sempre più televisivi, sempre più ignoranti di quanto prezioso fosse stato ed era e potrebbe essere il Salento: quello di de Martino e Carpitella, quello di tutti i salentini illustri e popolo, della cattedrale di Otranto, dei mari levantini, di Nostra Signora dei Turchi, di Frate Asino che levitava meditando fino a Copertino. Dopo le prime stagioni che ebbero direzioni artistiche e musicali interessanti ora, dicevo ai miei ospiti, il Concertone si stava avviando verso la folla incondizionata, verso il non ascolto; ché ormai bastava il 12/8 delle tammorre per accontentarsi. Si stava deprivando la Pizzica della sua concezione del mondo, della sua weltanshauung, lasciando sopravvivere solo un povero beat e qualche melodia ...così ... “l’acqua te la funtana” stava diventando sempre più “mara mara”, imbevibile. Il Blues, riflettete, questo non l’ha mai fatto! In tutto il suo gran viaggio da Daddy Stovepipe a Leadbelly a John Lee Hooker a Dylan, Clapton fino ad oggi, il Blues (in chi lo suona) non ha mai rinunciato all’insicurezza
dell’universo e del quotidiano, alla sua precaria esistenzialità, alla sua pena e alla sua gioia, alle sue blue notes. Qui sarebbero arrivati stellini e stelline del pop nostrano a cantare brani della pizzica salentina come se stessero bevendo una purga. Si stava creando un contenitore che esulava dal palco, ch’era indipendente da quel che si suonava o diceva. Contava il backstage dove politici vari si mostravano lucidi e abbronzati, contava il medium che via via è diventata la RAI, contava l’inquadratura/dollystyle sulla massa (ventimila persone che si spacciavano mediaticamente per duecentomila) e tutti o quasi senza strutture (o poche) recettive. Contava la presenza giovanile, sempre più distratta e ubriaca, contavano le birre a migliaia, i panini, i gelati, le bancarelle, le famiglie vocianti. E così la Notte della Taranta – nel programma e nel linguaggio – finiva per assomigliare al Concertone del Primo Maggio, che a sua volta inseguiva Sanremo in una marmellata dolciastra, omologata e politicamente pure scorretta. Non sarebbe mancata a quel punto tra i conduttori ospiti nel 2019 anche Belen Rodriquez e, ovviamente, la proliferazione di coreografie invasive e para-drammatiche. Dove è finito il grande “blues” contadino del Salento mediterraneo, la sua fatica, il dolore imploso (e misconosciuto ) delle tarantate? Dove è finita la musica, la iatromusica che curava i corpi e le menti? Dove la possessione pregreca e preromana, shivaitica, del Mediterraneo dell’Est ? Il discorso non può non essere che generale. Deduttivo. Deve essere necessariamente olistico. Vediamola così. La Notte della Taranta è una sineddoche, ovverosia, retoricamente, la parte che rappresenta il tutto. Un tutto che, in questo caso, è una delle aree più belle del mondo e dunque, lasciatemelo dire, rappresenta a sua volta la
bellezza tutta del mondo, non solo naturale ma anche culturale. Frutto di una antropizzazione millenaria che ora davvero ci servirà per attraversare il l’incognito futuro come carburante di sopravvivenza. Per questo motivo non si può rinunciare alla bellezza intrinseca della Pizzica/Tradizione pur tradendola (e si deve) con il mondo, come qualcuno dei maestri Concertatori ha pure fatto: Milesi, Copeland, Einaudi a suo modo. Del Salento invece in questi giorni si parla come in preda a un pericolo irreversibile di vita per “turismo devastante”; avviato ad una economia terziaria ipertrofica. Qualcuno degli addetti, leggo sui social o su qualche regionale qui al bar, si preoccupa. Ma preoccuparsi vuol dire, letteralmente, “occuparsi prima”, prevedere. Qui siamo invece al dopo. I buoi sono scappati. Si può ancora agire ma ormai con la stalla aperta. Per questo mi chiedo: dove erano in questi anni, le decine e decine di politici e funzionari comunali e delle varie organizzazioni preposte? Non avevano il compito di fare previsioni, pagati per studiare il territorio e prevedere e pre/occuparsi? Dov’erano per attenuare, quantomeno, l’impatto universale del cocktail agriturismo/B&B/Spritz/canna/stabilimento/ ombrellone/scapece e tortino? Non sapevano che c’è un rapporto tra lo spazio e il numero di viventi concentrati in esso? Che i rapporti devono essere aurei se si vuole salvaguardare aria, donne e uomini, natura, economia, e tutto il resto? Che vanno rispettate le proporzioni, e tra queste ci sono la tradizione, la memoria, il genius loci? Che non c’è alternativa, al punto in cui siamo, che quella di crescere con poco? Dove erano? Anche solo per una parola. Mi verrebbe da dire pasolinianamente: “io lo so”. Io so dov’erano e dove sono. Ma chiudo qui, cercando pensiero positivo e speranza sicura. Serve una forte illuminazione ma diminuendo di molto il numero di watt sulla Notte Nazional Popolare. La musica tornerebbe a vibrare e con essa lo splendido Salento. 

Luigi Cinque

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