John Hiatt with The Jerry Douglas Band – Leftover Feelings (New West Records, 2021)

“Leftover Feelings”, l’ultimo album in studio del chitarrista e compositore John Hiatt, si inserisce in quella fascia di produzioni musicali che possiamo ricondurre al folk-blues. Ne ha grossomodo tutte le caratteristiche: innanzitutto la struttura, imperniata su una scrittura narrativa che ha come primo riferimento la chitarra acustica (a cui si aggiungono le altre corde della Jerry Douglas Band), e poi il suono, il timbro e, in generale, l’andamento melodico. In questo senso l’album – che propone una scaletta acustica di undici brani, da cui emerge una voce straordinaria e assolutamente non perfetta – suggella la vicinanza di Hiatt al suono deep-american, non ricercato ma modellato a dovere: non costruito, direi, ma “esposto” ai soli elementi che lo caratterizzano (“Light of the burning sun”). Questo aspetto e questa “ricerca” (se di questo possiamo parlare, dato che il musicista di Minneapolis, nonostante le sue famose virate verso altri generi, sembra maneggiare tutto con comodo agio), riportano Hiatt a Nashville e producono un piacevole precorso a ritroso (“All the Lilacs in Ohio”). Entro il quale “Leftover Feelings” sembra assumere i tratti di un lavoro perfettamente compiuto, capace cioè – come l’autore aveva evidentemente programmato – di assorbire ogni singolo atomo del microcosmo country che risponde al nome di Tennessee e, più nello specifico, di RCA Studio B (“I’m in Asheville”). Proprio qui infatti Hiatt ha voluto registrare l’album – qui dove si respira l’aura di Elvis e degli Everly Brothers, e dove gli artisti si lasciano attraversare dal “Nashville Sound” – approfondendo la collaborazione con Jerry Douglas, che ha prodotto il suo precedente “The Eclipse Sessions” nel 2018. L’incontro ha fruttato soprattutto in termini di intesa, caratterizzando i brani in modo delicato ma chiaro. La forza dell’album, anzi, sta proprio qui: con la scrittura ispirata di Hiatt non sono necessarie aggiunte particolari (gli arrangiamenti sono sempre basilari), bensì sostegni, puntelli che segnano i passaggi più importanti, richiamando l’atmosfera di un bluegrass istantaneo ma instancabile (“Mississippi phone booth”). La band di Douglas – composta da dobro, chitarra, violino e contrabbasso (percussioni non ne servono in questo caso: ritmo ce n’è e come) – si pone sempre come “presenza”, quasi come un simbolo, come un segno che contrassegna un’appartenenza. Appartenenza che, inevitabilmente, percorre l’ambivalenza stilistica di un autore che ha una propria voce, un carattere e un metodo che incrementano il programma esecutivo in modo sempre originale (“Sweet dream”). Al centro del procedimento che la Jerry Douglas Band è stata chiamata a interpretare vi è non solo (e, probabilmente, non tanto) la scrittura di Hiatt – che si presenta felice, semplice, lineare, “consapevole” delle direzioni da prendere – ma la sua voce. Che, insieme al suo passato, incarna la sua prospettiva: fatta di racconto e chitarra, di canto semplice e disilluso, di melodia sottile, fluida, standard e minimale (“Buddy boy”). Questo non significa che l’apparato (soprattutto) melodico dell’album si insinui semplicemente nelle arie tradizionali, per ripercorrerle, riproporle e rimuoverne la patina. Significa piuttosto che Hiatt ha scavato, ha guardato gli strati della “storia melodica” che lo interessa in questo momento e ha compreso che con la sua voce può raccontarne alcuni esiti: quelli compresi e comprensibili nella dimensione contemporanea: aperta, porosa, distaccata ma profonda, incuneata nei bagordi di una produzione musicale molto rumorosa (“Changes in my mind”). Il suo contrappunto al presente e al passato “bluegrassino”, alla “maniera” stessa alla quale ha voluto intingere a Nashville, sa un po’ di fine della storia. O, per dirla in modo meno categorico, richiama l’idea del passaggio, di un rituale appunto (i simboli servono anche a questo), durante il quale ci si “immerge” in una dimensione (liminare?) quasi sempre ambigua per lasciarsi qualcosa alle spalle e per poter guardare verso qualcos’altro (di nuovo?). La traduzione musicale di tutto questo è solcata dentro “Leftover Feelings”, assemblato con grazia e pacatezza, suonato con la consapevolezza di avere imboccato la via giusta al crocicchio: pochi suoni ma pieni e sicuri, poche parole, dette mai ad alta voce (“The music is hot”), ma chiare e piene di armonia. Undici canzoni: una più bella dell’altra. 


Daniele Cestellini

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