John Francis Flynn – I Would Not Live Always (River Lea, 2021)

L’apprendistato musicale per l’artista dublinese (residente a Howth) non iniziò nel migliore dei modi da bambino, perché l’insegnante di piano gli consigliò di lasciar perdere i tasti bianchi e neri. Così John, seguendo la passione di suo padre, si dedicò al whistle e, soprattutto, si rivolse al mondo della musica tradizionale irlandese. Più avanti negli anni, con il quintetto folk Skipper’s Alley ha vinto un contest con cui ha partecipato al Festival Interceltico di Lorient e inciso un album, per poi iniziare ad esibirsi in solo, facendo da supporter ai Lankum e al duo Ye Vagabonds. Da qui la firma per la River Lea (costola della label Rough Trade), nel cui roster è in ottima compagnia, accanto alla conterranea Lisa O’Neill, i già menzionati Ye Vagabonds e la piper scozzese Brighde Chaimbeul. Oggi, a trentun anni, Flynn (cantante, autore, chitarrista e flautista) si presenta con “I Would Not Live Always”, un formidabile debutto, in cui suona con Ultan O’Brien (violino), Consuelo Nerea Breschi (voce), Saileog Ní Ceannabháin (voce), Phil Christie (tastiere) e Ross Chaney (batteria, synth, loops). L’album, registrato e mixato a Dublino (Oxford Lane and Sonic Studios), è stato prodotto da Brendan Jenkinson (a sua volta si è unito anche lui al gruppo di musicisti suonando synth, clarinetto e chitarra elettrica). Quando in un’intervista alla RTE gli hanno chiesto dei nomi ispiratori, J.F. Flynn ha messo uno di seguito all’altro John Martyn, Portishead, Noel Hill, Gavin Bryars, Sam Amidon, Sufjan Stevens, Ewan MacColl, Shirley and Dolly Collins, David Byrne, Arty McGlynn, Dick Gaughan, Sarah and Rita Keane, Steve Reich, Bill Frisell, Peadar Ó Riada, Matt Molloy, Charanjit Singh e Talk Talk (l’elenco è solo parziale). Ha definito la sua musica “Electradica”, descrivendola come se “Blade Runner fosse ambientato in Irlanda e Deckard continuasse a presentarsi alle session di The Cobblestone”. Un artista che personifica le nuove vie intraprese da molti musicisti di matrice folk urbana, in Irlanda; un approccio aperto e senza prescrizioni al repertorio tradizionale, nel quale le procedure e gli accorgimenti elettronici convivono con strumenti acustici dell’Irish folk e con la sua ricca tessitura vocale. Uno straniante preludio elettronico apre la ballata tradizionale “Lovely Joan” che procede sul filo di chitarra, violino, batteria e loop. Il ritmo dispari collide con la linea melodica rafforzando l’atmosfera magnetica del brano, rispetto al quale, nelle note di presentazione, John Francis racconta di essere stato influenzato dal suono dell’organo portativo di Dolly Collins. “Cannily Cannily” è il primo motivo ripreso dal canzoniere di Ewan McColl, proposto con voce scura appoggiata al fraseggio dell’archetto di O’Brien, suo sodale nei Skipper’s Alley . “My Son Tim”, una ballata che ha avuto origine in epoca napoleonica e che esiste in molte varianti con titoli diversi, è il primo singolo (e video) del disco: canto e chitarra percussiva in una delle gemme del disco. Flynn dice di averla appresa “da una registrazione del leggendario cantante di Dublino, Frank Harte. Una canzone contro la guerra legata ad un certo umorismo irlandese. Un’altra leggenda di nome Andreas Schulz fa una versione potente di questa canzone e forse è stato il suo canto che mi ha spronato a imparare la canzone, ma non lo ricordo con certezza”. La perizia strumentale traspare in “Tralee Gaol”, una polka suonata con un doppio whistle (uno melodico e uno con ruolo di bordone) e accompagnata dal battito del piede. Subito l’eccellente digressione strumentale, si para davanti un altro degli episodi di grande intensità: si tratta di “Shallow Brown”, che si sviluppa in otto minuti, per voce, arpeggio di chitarra, linee essenziali di violino, backing vocal di Consuelo N. Breschi e l’elettronica di Chaney, che interviene nel finale manipolando e distorcendo in maniera inquietante la voce di Flynn. È uno shanty di origine ottocentesca, un commento sulla schiavitù (dal repertorio del grande maestro del genere marinaro, Stan Hugill): un uomo saluta la sua amante riflettendo sulla sua condizione, mentre la nave si allontana dal porto (“Il padrone sta per vendermi/Vendermi a uno yankee/Vendermi per un dollaro”). Il secondo strumentale, “Chaney Tape Dream”, è una slow air i cui fiati nel procedere confluiscono nei loop di Chaney. Segue il passaggio più rticolato del lavoro, “Bring Me Home”, costruita in una sorta di suite di tre canzoni. Si inizia con la delicatezza di “The Dear Irish Boy”, si continua con “I Would Not Live Always”, un inno religioso dove su un crescente, ossessivo clangore (chitarra, synth, percussioni) Flynn ripete con insistenza i versi “I would not live always/I ask not to stay/Where storm after storm/Rises dark o’er my way”. Il terzo “movimento” è “An Buachaillin Ban”, versione in lingua irlandese del primo motivo, recitato dal cantore di séan nós Saileog Ní Ceannabháin, contornato dalla voce di Flynn e da droni che chiudono drammaticamente il tema. Flynn si commiata con una superba resa di “Come Me Little Son”, un altro classico di Ewan MacColl, appresa dalla celebre versione di Luke Kelly e dei Dubliners, una ballata su un giovane che, impegnato nel costruire "l'autostrada d’Inghilterra”, lamenta l’assenza prolungata di suo padre. John Francis canta e si accompagna alla chitarra, mentre nel finale entra a sostegno un bordone di violino. Mentre il dublinese già annuncia che il prossimo sipario si aprirà su inediti scritti di suo pugno, noi diciamo che i numeri espressivi ci sono tutti: ascoltate questo album e non perdete di vista John Francis Flynn. 


Ciro De Rosa

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