Brian Finnegan – Hunger of the Skin (Singing Tree Music, 2021)

Un altro sostanzioso frutto del primo confinamento del 2020 è “Hunger of the Skin” di Brian Finnegan, flautista (whistle e flauto), già con il formidabile quartetto anglo-irlandese Flook, con i Kan e i russi Aquarium, vissuto tra India, Europa dell’Est e Russia. L’album è stato registrato dal musicista di Armagh (cresciuto musicalmente nel famoso Armagh Piper’s Club) tra la propria casa, i Bannview Studios di Portglenone e altre sale sparse per il mondo, collaborando in remoto con ben ventiquattro musicisti, e prodotto in combutta con Seán Og Graham dei Beoga, che ha anche suonato in tutte le nove tracce (chitarre acustiche ed elettriche, chitarra tenore, bouzouki, tastiere, organetto, programmazione, cavaquinho e ukulele). Realizzato nella primavera del 2021, l’album succede a “The Ravishing Genius of Bones”, disco solista pubblicato ben undici anni fa. “Hunger of the Skin”, il cui titolo riflette la condizione di isolamento del lockdown, è stato salutato con entusiasmo dalla critica irlandese e britannica. Di questa sua produzione Finnegan scrive: “La musica di questo album è arrivata di notte, a volte era come se ci fosse poco più che una sorta di fissità nell’aria, ma poi qualcosa si agitava e iniziava una sorta di cauto corteggiamento, a volte dovevo scavare per raggiungerlo. Ho sempre creduto che l’intrusione nel processo compositivo significasse in qualche modo rompere l’incantesimo del flusso, ma ho dovuto riconsiderare questa opinione, la musica ha riscritto le regole. Almeno la metà delle composizioni di “Hunger Of The Skin” è come fosse saltata giù dal dorso di un mustang, sospinta attraverso la porta, ribelle ed energica, a volte dovevo solo attendere; notte dopo notte è andata avanti così. In quelli che sembravano e sembrano ancora tempi straordinari di grande resa dei conti, sono stato in grado di far pervenire il materiale grezzo ad amici e colleghi musicisti di molti diversi generi e tradizioni, e in qualche modo tutti hanno trovato un modo a distanza (23 modi, in effetti, e nessuno uguale all’altro) per far incendiare la polvere in respiro”. Tra i musicisti coinvolti, tre sono le presenze costanti nel disco: il batterista Liam Bradley (suona anche percussioni e loop), il bassista Ian Stephenson e, agli archi (violino, viola, violoncello e arrangiamenti), di Patsy Reid. Se “Hunger of the Skin” si configura fondamentalmente come un lavoro strumentale, in cui trionfa lo stile fluido e ibrido di Brian, che unisce LE tecniche del whistle a quelle del flauto, non mancano, tuttavia, le voci, a iniziare da quella in “Dust /An Damhsa Dubh”, dove Gearóid MacLochlainn recita una sua poesia in irlandese, all’interno di una vibrante danza dal portamento nuance rock-funky, il cui ritmo è sostenuto da percussioni, elettronica e banjo (Leon Hunt). Anche nella successiva “Fathom”, dalle venature jazzy (con un assolo di trombone di Paul Dunlea) e pop, c’è un passaggio spoken word: questa volta si tratta di Morna Finnegan, la sorella di Brian, interprete di “Dare”, una sua lirica sulla condivisione e sullo stare insieme, ben adatta ai devastanti tempi che stiamo attraversando. L’intera poesia sarà poi proposta ancora nella traccia finale del disco. Whistle e archi conducono “Crossing the Rubicon/Ollin”, brano dalle due fisionomie, pacato nella sua prima parte, quando il conterraneo nordirlandese Colum Sands recita “The Coming of the Light” (“La luce che viene”) di Mark Strand, una poesia che porta in chiusura il verso “tomorrow’s dust flares into breath” (“la polvere del domani s’incendia in respiro”), come visto parole riprese da Brian nelle note di copertina per riassumere il senso di quest’opera e delle collaborazioni che hanno reso materia viva le sue idee musicali. La seconda parte del tema si sviluppa con un andamento più sostenuto che si muove in forma di jig. Non meno eclettico il sound rivelato da “Chase the Shouting Wind”, condotto in primis dal bodhrán di John Joe Kelly; con un cambio di ritmo entrano la voce e il sitar di Sheema Mukherjee per un interludio di sapore indiano, sostenuto dal basso fretless di Stephenson e dalle percussioni di Bradley. Poi i fiati di Finnegan riportAno tutto a casa, in Irlanda. Il trombone di Anton Boiarskikh si insinua in “Flow, in the Year of Wu Fei”, il primo singolo dell’album, certamente il motivo più incisivo e vorticoso sul fronte creativo, che ha ricevuto la nomination per i Folk Award del primo canale della Radio Televisione irlandese nella categoria “Best Original Track”. Anche qui è presente un inserto spoken word con la poesia in russo dell’autore rockettaro Boris Grebenshikov (“Bird Crusade”). Attacco di mandolino (suonato dal californiano Ashley Hoyer) in “To Trees/Tony” che apre la strada al fraseggio fluido e imperativo di Brian, mentre “Trigger’s Lament, Jig for Amelie, Red Plant Blues” è un canonico set arrangiato da Niamh Dunne (violino e viola) dei Beoga. La squisita slow air “Equator Light” impone una dimensione meditativa (una sua compagna dei Flook, Sarah Allen, suona un flauto contralto). Infine c’è “Dare”, in cui la voce di Morna recita su effetti e droni. Finnegan si riconferma musicista dalla testa pensante oltre che dotato strumentista, pronto a rompere barriere e a spostare i confini della sua arte. Disco dalla struttura composita che trasuda umanità, ben suonato e ben arrangiato, energetico, creativo e poetico: è “Hunger of the Skin”. 

 
Ciro De Rosa

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