The Wallflowers – Exit Wounds (New West Records, 2021)

Sono passati trent’anni dal primo album in studio dei Wallflowers, uscito nel 1992 con titolo eponimo e seguito da una discografia centellinata che ha comunque toccato posizioni importanti sia sul piano commerciale che nei riscontri della critica. In aggiunta, si potrebbe dire che la band capitanata da Jacob Dylan ha contribuito – divenendone, soprattutto nello scorcio tra gli anni Novanta e i primi Duemila, una delle migliori rappresentanti – a ricondurre l’attenzione (e, di fatto, a rilanciare) su un rock americano un po’ in flessione, caratterizzato da uno stile molto sobrio, da una strumentazione molto “tradizionale”, da una scrittura molto “americana” e da un’attrazione inevitabile per ciò che rientra nel concetto di “roots”. Forse era proprio questo, fin dagli esordi a Los Angeles alla fine degli anni Ottanta, l’orizzonte a cui guardavano i membri di questa band. E, senza dubbio, proprio questa è stata la forza che ha orientato una produzione discografica molto apprezzabile: sia quando rientra in quel tracciato di cui sopra, sia quando vi si allontana e sonda (non convintamente e non convincentemente) qualcosa di più ammiccante e (come ha scritto qualcuno) radio-friendly. Ad ogni modo, Jacob Dylan – il quale è sempre stato il perno della band ed è oggi l’unico Wallflowers rimasto della formazione originale, che negli anni si è comunque contraddistinta per cambiamenti drastici dell’organico – si riscopre come un autore sufficientemente prolifico e piacevolmente ispirato (“The dive bar in my heart”). A tal punto da aggiungere un nuovo tassello alla produzione di questa band e, in generale, al suo canzoniere, parte del quale è stato incluso, come sappiamo, anche in due album solisti: “Seeing Things” del 2008 e “Women + Country” del 2010, prodotti rispettivamente, e con le differenze di suono e arrangiamento che si possono immaginare, da Rick Rubin e T Bone Burnett. Questo nuovo album “Exit Wounds” già nel titolo suggerisce una direzione nuova, o meglio di allontanamento. Meglio ancora: di allontanamento dalla traiettoria seguita dalla band (traiettoria, come detto, fatta di cambiamenti e sperimentazioni) e riavvicinamento alla passione originale, alla narrativa passionale e meno ascetica del rock basilare e pacato, morbido, della grande tradizione americana ("I’ll Let You Down (But Will Not Give You Up)). A un genere, cioè, che ha il grande merito di raccontare la storia oltre il tempo, di ridefinire ogni volta gli spazi necessari al racconto, di riconnettere il narrante con un contesto sonoro tradizionale: un contesto che è allo stesso tempo lo strumento (gli strumenti) di un linguaggio che poggia sui pilastri di un espressionismo molto radicato e di una lingua rinnovata ciclicamente ("Move the river"). La vera forza di “Exit Wounds” la si trova proprio in questo scorcio in cui gli elementi (narrativi, timbrici, ritmici) assumono un carattere ambivalente. Appunto un carattere vecchio e nuovo: insomma un carattere epico (“Darlin’ hold on”). Non è un caso – qui ci conduce questa breve riflessione – che Dylan (come è chiaro è di lui che stiamo parlando, seppur nascosto sotto il manto dei Wallflowers) ricami l’album ricorrendo a dettagli fortemente caratterizzanti questa doppia prospettiva. Da un lato compatta il fronte roots con un organico coeso di musicisti navigati (Santon Adcock alle chitarre, Steve Mackey al basso, Lynn Williams alle percussioni e Jimmy Wallace alle tastiere), a cui aggiunge la cantante statunitense Shelby Lynne, che con la sua voce impregna a dovere la scaletta di “Exit Wounds” (“Maybe your heart’s not in it no more”). E dall’altro sceglie Butch Walker come produttore. Quest’ultimo centra in pieno e rafforza l’equilibrio che Dylan intende dare a questo nuovo progetto, riuscendo a bilanciare una struttura generale che, senza svincolare i suoni dalla cultura espressiva tradizionale americana, si salda, con piacevole naturalezza (e grazie alla scrittura di Jacob), alla contemporaneità (“Roots and wings”). 


Daniele Cestellini

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