Gang – Ritorno al fuoco (Rumblebeat Records/Sony, 2021)

Parlare dei Gang è un lavoro abbastanza difficile: in fondo, siamo di fronte ad un pezzo di storia della canzone d’autore italiana, delle colonne del combat-folk, la perfetta riprova - qualora che ce ne fosse bisogno - che la canzone è un discorso strettamente e profondamente politico. La loro è una storia che parte dal punk militante dei Clash: non a caso, Joe Strummer diceva di essere un cantante folk con la chitarra elettrica, e la definizione calza a pennello anche per i fratelli Marino e Sandro Severini. E se, soprattutto, “Tribes’ Union” e “Barricada Rumble Beat” erano arrivati come dei lavori programmatici per quello che sarebbe stato l’approccio civile alla forma-canzone, con “Le Radici e le Ali” arrivò una vera e propria rivoluzione di forma all’interno del folk di casa nostra: il loro è stato un contributo fondamentale alla creazione di quell’iconico combat-folk di cui la paternità onomastica, per così dire, va ai Modena City Ramblers, ma quella ideologica è decisamente di timbro marchigiano. Insomma, siamo di fronte ai padri (via, magari gli zii) di band come i già citati MCR, ma anche Bandabardò, YoYo Mundi, Tupamaros, Casa del Vento, Luf, Les Anarchistes e chi più ne ha, più ne metta. Facile intuire, quindi, che una qualsiasi manifestazione artistica dei compagni Severini non può che destare interesse. E “Ritorno al fuoco”, questo il titolo del loro nuovo lavoro, prosegue nel segno della collaborazione con Jono Manson, iniziata ormai nel 2014, con “Sangue e cenere” e proseguita anche con “Calibro 77” di un paio di anni dopo. In questo caso, a comporre questo disco, troviamo dieci canzoni inedite (più una cover), che, come sempre, non lasciano spazio a fraintendimenti di sorta. Prima di parlare direttamente di “Ritorno al fuoco”, però, mi faceva piacere spendere un paio di parole anche su due chicche che Marino e Sandro hanno “messo in palio” nel crowdfunding lanciato per la realizzazione del loro nuovo lavoro. La prima delle due è “Per un pugno di stelle”, una raccolta di live inediti che ripercorre, album per album, i trentasei anni di carriera della band di Filottrano, in cui spiccano una splendida versione dell’immortale “Bandito senza tempo”, una nervosissima “Rumble beat”, ed una strepitosa “Non è di maggio”. L’altro regalo è “Folkies”, altra raccolta di brani storici dei nostri, ma suonati, appositamente per l’occasione, tutti in acustico: qui notevoli sono le riproposizioni dell’immancabile “Socialdemocrazia”, di una commovente “Paz” e di una “Duecento giorni a Palermo” sacramente incazzata. Album che si apre con i colori country di “La banda del Bellini”, la cui spina dorsale è costituita da una dinamica sezione fiati, che si sposa bene con una focosa linea di basso e con la voce, ruvida e potente, di Marino, in quello che è uno dei tanti salti temporali tipici della sua penna. Ci riporta nella Milano degli anni Settanta, quella del Casoretto, luogo di azione della banda omonima, ripulito dai fascisti grazie al suo incessante contributo. Si prosegue con uno dei pezzi migliori del disco, “Via Modesta Valenti”, struggente storia di una anziana senzatetto, morta nella stazione di Roma. Racconto scandito letterariamente da continui parallelismi alla passione di Cristo, “Via Modesta Valenti, c’è un altare di neve, ci sono corone di spine”, ma anche “Tu che puoi, canta per loro, spezza il pane, versa il vino”, in un brano che fa della perfetta aderenza fra testo e musica la sua peculiarità, rimarcata da un mandolino tremolante e da una slide guitar fragile, squarciati dai toccanti contrappunti di un’armonica e degli archi. C’è spazio anche per le commistioni col mondo della world music, ed è il caso di “Rojava Libero”, con un interessantissimo incontro fra le potenti schitarrate elettriche di Sandro ed una tessitura melodica di santour che regala all’atmosfera sapori arabi, in una canzone, l’ennesima, fieramente partigiana, fieramente schierata, in questo caso dalla parte della Siria. Si prosegue con “Amami, se hai coraggio”, da cui balza all’orecchio lo spettacolare tappeto di Hammond che fa da cornice ai fraseggi blueseggianti della chitarra elettrica. E, se è vero come è vero, che anche cantare l’amore è un atto politico, i fratelli Severini riescono a farlo con intensità ma senza mai scadere nel retorico e nel banale. Altro episodio molto interessante è “Un treno per Riace” (“Non so quando arriveremo/ se all’alba o al tramonto/quel che conta è che ci aspetta di sicuro un altro mondo/come passa la bellezza, passeremo cantando”), coloratissima dedica a Mimmo Lucano, che prende i suoni di una rumba impazzita, sorretta da una fisarmonica sciancatamente popolare e da uno strumming denso di elettrica vitalità. Ritorna la dolcezza dell’amore in “A volte” (“A volte, quando canto, mi sento come un re. A volte piango e non so perché”), scandita da una chitarra acustica che sostiene la ritmica, su cui poggiano i fraseggi di dobro, mandolino e fisarmonica. Seguono le atmosfere tex- mex di “El Pepe” (“El Pepe vive sotto il vulcano/tutta Terra diventa un sogno/quando alza il pugno sopra il grano”), canzone dedicata a Pepe Mujica, che affonda in un tappeto di Hammond, che si lascia anche andare ad un vorticoso solo, da cui emergono una sghemba e fantasiosa sezione fiati ed i fraseggi della chitarra elettrica. “Concetta” (“Concetta stamattina, Concetta si dà fuoco/perché Concetta stamattina non vuol morire più/Concetta non è un numero in fondo ad una fila/non è mica uno straccio, Concetta, che pigli e butti via”) è, probabilmente, il capitolo più bello di questo ritorno dei fratelli Severini: racconta di Concetta Candido, che, licenziata senza nessun sussidio nel gennaio 2017, e stanca dei tempi ciclopici di una burocrazia asfissiante, l’estate successiva decise di darsi fuoco, in segno di protesta, in un ufficio dell’Inps, a Torino. Ne viene fuori un brano vivo, specchio sempre troppo attuale di tempi in cui, di lavoro, si muore quotidianamente, scandito da un pianoforte e dagli arpeggi di una chitarra acustica e chiuso da una toccante coda strumentale di violino e organo. Un marranzano tuonante, coadiuvato da un banjo incessante, segna l’atmosfera tempestosa di “Dago”, racconto dell’eccidio di New Orleans del marzo 1891, che vide l’uccisione di undici immigrati italiani da parte dei cittadini americani. Molto bella è la cover di “A Pa’”, omaggio alla grandezza - costantemente sottolineata da Marino - di Francesco De Gregori e, di riflesso, a quella di Pier Paolo Pasolini. In questo caso, gli strappi della steel guitar rendono l’atmosfera più nostalgica, mentre i soli di pianoforte ed organo regalano una interessante alternanza timbrica. A chiudere l’album è “Azadi” (“Ma una grande nave può trasportarci/i miei piedi sono sulla terra/il mio cuore è nel cielo/e finalmente sono libero”), che segna anche il ritorno dei colori etnici già precedentemente incontrati, con un saz a fare capolino fra le svisature di violino, gli squarci della pedal steel e gli arpeggi della chitarra. In conclusione, ne viene fuori un album puro e genuino, che, nonostante non sia al livello dei lavori precedenti, soprattutto dei primi, suona sanguigno e sincero, politico ed attuale, e di questi tempi non è affatto poco. E, soprattutto, come tutti i loro lavori, è estremamente coerente: il fuoco continua ad essere, fortunatamente, acceso, e non ha nessunissima intenzione di spegnersi. Per cui lunga vita - rigorosamente a pugno chiuso - ai Gang. E bentornati. 


Giuseppe Provenzano

2 Commenti

  1. ma che ca.....spita è lo "strumming"?
    Alle volte mi viene voglia di passare oltre, quasi da non confondermi con voi, che state (sembra) felicemente in colonìa e schiavitù dell'impero stelle e strisce.
    Ma poi no, cavoli: parlate di radici (e di ali) e non avete voglia di spremere le vostre meningi per trovare una parola che significhi nella Nostra Lingua quel che per comodità preferite copincollare dall'Inglese...il linguaggio è cultura, la cultura è appartenenze consapevole ad un mondo per cui si può e si deve -partigianamente- lottare.

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  2. Gentile Lettore,
    cerchiamo di utilizzare sempre con parsimonia gli anglicismi, non già per spirito sovranistico ma per rispetto alla nostra lingua e al nostro lessico. Ad ogni buon conto, il termine "strumming" è prettamente tecnico ed indica la tradizionale tecnica di accompagnamento a corde piene, suonata con il plettro ed utilizzata prevalentemente con la chitarra acustica. Trovando, dunque, le sue asserzioni del tutto gratuite ancorché ingiuste, la invito a leggerci con meno pregiudizi e più attenzione.
    Salvatore Esposito
    Direttore Editoriale di www.blogfoolk.com

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