Il silenzio. Poi note di pianoforte. Solo quelle necessarie. Allo stesso modo entrano ed escono gli strumenti che ci conducono in un viaggio sul Bosforo: le corde della bağlama e del kemençe, le pelli delle percussioni. Quattro musicisti cominciano a parlare, tra loro e a chi vuol tornare con la memoria al XIX secolo, a “Gondol”, composta dal sultano ottomano Sultan Abdulaziz: tempo medio, accogliente, una rosa dei venti che continueranno a soffiare con intensità diverse nei nove brani: nove perle di un’unica collana impreziosita dagli accostamenti delle sue diversità. Un’arte familiare a Derya Türkan che offre al gruppo le due seguenti composizioni. La prima, “Sırdaş”, scritta a quattro mani con Coşkun Karademir, sa alzare subito l’intensità del tempo e costruire finestre diverse in cui tutti e quattro i musicisti hanno modo di esprimere la propria arte nel dialogo reciproco, come solisti, negli incalzanti ed impeccabili temi all’unisono. In modo toccante e delicato, Tord Gustavsen introduce “Şiraz”, con il tema che viene poi cantato da kopuz e kemençe e quindi sviluppato lasciando spazi all’improvvisazione dei singoli strumenti, indagando il lato jazz di Gustavsen, tessendo un ponte fra Mediterraneo e fiordi nordici che riflette l’amicizia che lega Coşkun Karademir e Tord Gustavsen (recente protagonista di una performance solitaria che ne evidenzia la sensibilità spirituale, nella chiesa Tanum di Bærum dove è cantor dal 2017): un concerto ad Istanbul è stata l’occasione per riservare per un giorno lo studio di registrazione insieme a Derya Türkan e Ömer Arslan, ad esplorare insieme le comuni matrici anatoliche in dialogo con la sensibilità del pianista scandinavo.
In due occasioni la musica del quartetto viene costruite intorno alla magistrale voce solista di Coşkun Karademir: in “Payton Geldi”, a metà album, un brano tradizionale di Bilecik che parla dei sentimenti più profondi (“Quando cerchi amore e mi trovi nella tua anima”), e nel conclusivo “Beni Hor Görme”, scritta da Aşık Veysel, fra i compositori di canzoni turche più importanti del XX secolo.
Il viaggio musicale gioca con l’andirivieni fra le epoche della musica ottomana e propone anche “Zahit Bizi Tan Eyleme”, tema che si ispira ai versi di Muhyî, scritti nel XVII secolo, espressivamente “cantati” dal kemenche di Derya Türkan: pur suonando con l’arco, sa imprimere allo strumento modulazioni che paiono uscire da un flauto, come accade anche nella chiusura e nell’introduzione, subito dopo il piano, del penultimo brano che lega i due tradizionali anatolici “Aşk Bezirganı” e “Uzundere Barı”. Al kemenche, in “Aşk Bezirganı”, è affidata la pacata rievocazione dei versi del poeta anatolico Yûnus Emre, prima di far salire di intensità la musica con “Uzundere Bar”, fra i momenti catartici dell’album.
Questo è fra i tre altri brani, oltre al primo, che superano gli otto minuti e sono tutti raccolti nella seconda parte dell’album. “Çakal Çökerten Zeybeği”, di Zeynel Demir, è introdotta da Derya Türkan e Coşkun Karademir che ne sanno far crescere l’incedere epico. Bağlama e kemençe sono protagonisti anche della ricognizione a Iğdır da cui viene ripresa “Al Alması”, con una linea melodica introspettiva, al contempo melanconica e consolatoria. Proprio in fondo all’album, è la nuda voce di Coşkun Karademir ad aprire e chiudere “Beni Hor Görme” con un monito che suona più attuale che mai: “La terra e il corpo sono una cosa sola / spegni il tuo desiderio prima di precipitare”. Ogni musicista “saluta” a modo suo, con improvvisazioni che lasciano il segno, sempre ispirate e organicamente sostenute dagli altri membri del gruppo.
Alessio Surian
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