Rio, Salvador e San Paolo sono i tre poli più conosciuti della musica brasiliana; meno conosciuta, la capitale dello stato del Pernambuco, Recife, è da decenni una pentola sonora in continua ebollizione, capace di incidere profondamente su sincretismi musicali del Nordeste e della regione. Settant’anni fa partorì il gruppo O Mundo Pegando Fogo, con la fisarmonica in bell’evidenza, anche perché nelle mani di giovani quali Hermeto Pascoal e Sivuca, in un territorio illuminato dalle magie di Lourenço da Fonseca Barbosa, meglio conosciuto come Capiba. L’approccio alle tastiere del Nordeste è strettamente intersecato alla ricchezza ritmica e alle tradizioni e ai suoni popolari di questa regione ed ha saputo influenzare i migliori compositori ed interpreti di altre regioni anche nell’ambito della musica jazz e improvvisata; un nome per tutti: Egberto Gismonti. Non stupisce, allora, che proprio da Recife stia soffiando il vento fresco del pianismo di Amaro Freitas, prima con l’album con cui ha debuttato nel 2016, “Sangue Negro”, poi con “Rasif” nel 2018.
La città dei suoi genitori, dove hanno una merceria, è São Lourenço da Mata, 112mila abitanti, nella regione della “mata pernambucana”. Lui è cresciuto a Nova Descoberta, zona periferica nella parte settentrionale di Recife, osservando una “realtà molto crudele”. Da bambino sognava di suonare la batteria, quella della chiesa evangelica della locale Assembleia de Deus. Ma per quello strumento la competizione era troppo serrata e così si “accontentò” dello strumento del padre, le tastiere. Per nostra fortuna: ascoltatelo stendere il tappeto sonoro su cui Criolo e Milton Nascimento raccontano "Cais" e "Não existe amor em SP", due toccanti brani – proprio in merito al coltivare l’umanità in contesti di crudeltà - pubblicati a inizio 2020 nell’EP "Existe amor", insieme ad altri due curati da Arthur Verocai.
Con “Sankofa” la musica cambia. Il titolo rimanda ad un archetipo Adinkra: un uccello con il volto rivolto dietro di sé; per Amaro Freitas si tratta di “un invito a non scordare la possibilità che sempre abbiamo di volgerci verso le nostre radici, la fonte che ci permette di realizzare al meglio le nostre capacità di procedere verso il futuro. Con questo disco provo a capire i miei antenati, il mio luogo, la mia storia, come persona nera. Il Brasile non ci ha raccontato la verità riguardo al Brasile. La storia della gente nera, prima della schiavitù è una storia ricca di filosofie antiche. Capire questa storia e la forza della nostra gente ci permette di capire da dove vengono i nostri desideri e sogni”.
Il contrabbassista Jean Elton, il batterista e percussionista Hugo Medeiros e Amaro Freitas guardano dritta negli occhi la tradizione del piano-trio e compiono passi decisi ed inediti verso una gestione orizzontale e complementare dell’interplay del gruppo. E’ questo spirito collettivo che coltivano e in cui vedono la linea di continuità con una dimensione spirituale di discendenza africana. Alle spalle, come è successo per gli album precedenti, hanno un paio d’anni di intenso lavoro in studio, sedute in cui gli aspetti di improvvisazione non sono funzionali alla performance solista, ma a cercare e sedimentare variazioni e nuove soluzioni per le cornici musicali che coinvolgono sempre alla pari i tre musicisti e per le continue transizioni e variazioni ritmiche che rendono così interessante l’ascolto, sospeso fra sonorità jazz, ritmi sollecitati dalle danze popolari afrobrasiliane (frevo, baião, maracatu, ciranda, maxixe), riletture nel registro del minimalismo delle opportunità di arrangiare e ricombinare l’arte del trio. Spiega Amaro Freitas: “Diamo importanza al processo creativo, sapendo che raggiungere luoghi differenti richiede tempo, così come richiede tempo capire il luogo in cui giungiamo. Per uscire dalla nostra zona di comfort i fattori più importanti sono il tempo, l’impegno, la disciplina e la saggezza. Ci vogliono mesi perché le idee comincino a trovare il loro posto. Alle future generazioni dico: rallentiamo, concediamoci più tempo, cerchiamo la profondità: basta nuotare in superficie, tuffiamoci”.
Ne sono nati otto brani ben distinti uno dall’altro, eppure legati da questa attiva ed emozionante ricerca di una lettura comune del materiale musicale, da una straordinaria capacità di agire costantemente sulla metrica oltre che sul ritmo e l’armonia, di inventarsi una coda efficace anche in un brano di pochi minuti.
Si comincia con la calda calma cui sa ricorrere il trio in “Sankofa”, mostrando una vena meditativa in cui inserire nuove soluzioni di accordi, ma anche bassi che sanno seminare nuove prospettive e che esplorano la natura contrappuntistica del piano con il contrabbasso che viene inseguito dalle frasi scandite sulla tastiera con la mano sinistra. “Ayeye” sa alludere a Monk sullo sfondo di figure fra il funky e il soul; “Baquaqua” rende omaggio a Mahommah Gardo Baquaqua, portato in Brasile nel XIX secolo, ma in grado di riprendersi la propria libertà la musica fotografa l’intenso lavoro che fu necessario per conquistarla; “Vila Bela” diviene così un’occasione per rallentare ritmo e intensità, per seguire soluzioni cromatiche che chiedono un respiro ampio, un momento di pausa prima dei riff serrati di “Cázumba” e quelli samba e complessi di “Batacuda”, con “Malakoff” che offre all’incedere incalzante una cornice elettronica, prima dell’originale giro accordale del meditativo “Nascimento”, sorta di preghiera posta in chiusura dell’album: una conclusione che parla di nascita.
Alessio Surian
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