Alessio Bondì – Maharia (800A Records, 2021)

La bellezza di un racconto musicale in dialetto consiste, oltre che nel dato strettamente culturale della sua riscoperta, anche nell’onestà e nella genuinità che, quale esso sia, garantisce. Funziona quasi come un guscio, come una zona franca in cui la barriera fra la realtà della narrazione e quella della vita vissuta viene quasi azzerata: è come se la padronanza atavica del linguaggio, unita al calore quasi familiare che il dialetto ha per ognuno di noi, abbattesse ogni possibile filtro emotivo che argina il flusso vivo della forma- canzone. La poetica di Alessio Bondì racchiude tutto questo, essendo il racconto più puro di una Sicilia pulsante, viva di una vitalità che sgorga, a tratti, sanguinante. In questo processo, l’uso del dialetto urbano di Palermo - differente per “distinzioni poetiche dal siciliano in quanto tale - è un vero e proprio fiume in piena di emozioni ed atmosfere, figlio purissimo della sua terra, dei colori splendenti di Ballarò, delle serate passate fra la commovente umanità della Vuccirìa o di Piazza Sant’Anna, di una ironia tutta personale, che, per la sua naturale tendenza al “riso amaro”, avrebbe fatto fregare le mani a Pirandello. Tutto questo si traduce anche nella ricerca maniacale di una musicalità sfrenata, apertamente “marinara” o, se preferite, “portuale”, nell’accezione che, solitamente, si dà alle città di mare, capaci di fare da spugna culturale e di lasciarsi imbastardire da mille culture, mille odori, mille voci, mille suoni. A distanza di tre anni da “Nivuru” e di sei dall’esordio “Sfardo”, Bondì torna con un nuovo album dal titolo fortemente evocativo: la “Maharìa” è la magia popolare siciliana, un terreno neutro in cui dionisiaco ed apollineo si fondono alla perfezione, dando vita ad una perfetta sintesi fra sacro e profano, fra fede e superstizione. Ed è proprio la title track (trad. “Dopo che sono scappato dappertutto/dopo che ho pensato che ormai non sapevo ridere più/ dopo che ho lasciato la mia speranza in mille posti/dopo che ho pensato che questa vita non mi capiva più/ sei uscita tu”) ad aprire l’album, sorretta da un tappeto di fiati ed archi che introduce ad un vorticoso strumming di chitarra acustica, in quella che è una catartica poesia d’amore, scandita da una carnalità quasi sanguinante, fatta di immagini, al contempo, potenti e delicate. A seguire troviamo i caldi colori sudamericani di “Cerniera Zip”, su cui danzano un vibrante ed assolato flauto ed una vorticosa linea di basso, che si incastra perfettamente sulla ritmica in levare. E’ un brano dall’afflato leggere che si sposa perfettamente con le liriche: “Sono vuoto dentro/in testa non ho niente/e me ne vado fra la gente/con un sorriso tra i denti/il mondo è così pieno di miracoli/ il sole, ti sembra poco?/Il mare, tu ed io” che scandisce il ritornello. La terza traccia “200 voti” è caratterizzata da un’atmosfera elegante e delicata, sorretta da un arpeggio di chitarra classica che si evolve in crescendo spinto dagli archi e dal flauto per raggiunge in altezza - poeticamente immaginifica, prima che strettamente musicale - la vetta di Monte Pellegrino. Difficile non restare incantati dalla bellezza di versi densi di lirismo come: “Er u viru puru ora/l’occhi piersi, bossa nova/cu s’ammazza, cu si spinci/mentri u’ paraddisu strinci”. Un incessante pizzicato di chitarra classica apre “Fataciume”, scandita da un ossessivo pattern di percussioni e dagli arzigogolati contrappunti di archi, in una canzone segnata dall’aria purificatrice di un afflato musicale libero e fresco. Arriva, poi, “Ave Maria al contrario” (“Luna di lana, stelle fredde/ chi mi spiega la strada più veloce/ per arrivare dove c’è qualcuno come me?/Certe volte mi fermo a pensare/a quanti bocconi amari ho dovuto bere/come se andassi di fretta”), che nella sua carica catartica e rabbiosamente liberatoria è una delle gemme assolute dell’intero lavoro. Soluzioni musicali che seguono, rispetto al resto dell’album, una dinamica meno fantasiosa, ma che risultano perfettamente centrate nel racconto del brano, con la chitarra a sostenere nelle strofe ed il crescendo ritmico che arriva tempestoso sui ritornelli. Notevoli gli inserimenti della sezione archi, che regalano ampiezza al brano, e gli squarci della lapsteel che, quasi in contraltare, ne rendono ancora più sanguinante il clima. “Taverna vita eterna” ci accoglie con un interessante incastro fra un flauto e degli applausi che trainano la sezione ritmica, per proseguire con un andamento forsennato, guidato dall’intreccio tra archi e fiati che, oltre a costituire il vero e proprio riff trainante della canzone, compongono con la chitarra la struttura melodica del brano, squarciandone l’impianto ritmico. Un racconto che è una fotografia perfetta della taverna (che ai palermitani riporterà alla memoria una taverna in particolare) e di quel caleidoscopico microcosmo colorato di umanità che la anima. Un delicato arpeggio di chitarra classica sostiene elegantemente “Occhi tanti”, allargata da una raffinata e toccante intersezione di archi e fiati, che si libbra sugli alti cieli poetici di versi come “Tu hai due occhi così piccoli/ giochiamoci a biglie”. “Ddà fuora” è contraddistinta da un’atmosfera densissima sulle strofe, che sono quasi cascate di parole, aperte da archi e fiati, scandite da chitarra e batteria e legate da una profonda linea di basso, che si apre - anche melodicamente - sul ritornello con la sezione orchestrale in evidenza. Si tratta di una vera e propria confessione, sincera nella sua rabbiosa confusione: “Se avanzasse tessa/sotto i miei piedi bruciati/io ballerei e manderei tutto all’aria/la gente, Dio, te”. Ritornano delle nuances sudamericane su “V&V”, brano dal tiro fresco e libero, quasi mariachi, su cui i contrappunti di archi e fiati che danzano giocosi, inserendosi perfettamente fra la tessitura del basso avvolgente ed i rasgueos di chitarra classica e charango. A chiudere il disco è “Cuori cruru”, brano dall’atmosfera malinconicamente nomade (“Ora che cambia tutto troppo sempre/io come figlio non mi riconosco più/E mentre all’alba tutti dormono/ accolgo quello che non ho e me ne vado”), in cui la chitarra classica si prende la scena, sposandosi perfettamente con la voce di Alessio, lasciandosi accompagnare da un delicato sottofondo di archi durante il cantato e da un elegante fraseggio di fiati nella parte strumentale. Traendo le somme, il ritorno di Alessio Bondì coincide con un lavoro dalla classe purissima, quasi commovente. La sua voce è fuoco vivo, ennesima prova di alta classe interpretativa. Probabilmente, da “bravi” contemporanei, non ce ne stiamo rendendo conto, ma il cantautore palermitano sta riuscendo sempre di più a rappresentare per la sua città quello che Pino Daniele, soprattutto nei suoi primi tre album, è stato per Napoli: incontro ricercato fra culture musicali, voce del popolo, passione sanguigna, canto arrabbiato e dolce allo stesso tempo, breviario di essenza e resistenza panormita. Godiamocelo, teniamocelo stretto. E ringraziamolo. 


Giuseppe Provenzano

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