La famiglia Diabaté ha scritto alcune delle pagine più importanti della kora, l’arpa a ventuno corde dell’Africa occidentale, strumento che Sidiki Diabate ha cominciato a registrare cinquant’anni fa, quando suo figlio Toumani era nato da poco. Se quest’ultimo ha chiamato il nuovo album “Kôrôlén” (anzianità in bambara) è, innanzitutto, per sottolineare la linea di continuità della sua musica con una tradizione plurisecolare: “L’ho scelto per evidenziare come l’Africa abbia la sua musica classica, per esempio la musica mandinka che è molto più antica di Beethoven, Mozart o Bach e che rimonta al XIII secolo, anche se poco conosciuta in occidente. Molti identificano la musica africana con il far festa, le percussioni e ballare a petto scoperto, ma suoniamo anche in modo spirituale, mistico o meditativo”. “Kaira”, il suo ottimo debutto discografico da solo, è del 1988. Dopo otto splendidi dischi, e collaborazioni che vanno dai Ketama a Taj Mahal a Roswell Rudd, dal 2005 ha trovato in Nick Gold e nella World Circuit una sponda discografica ideale che ha già maturato sei album. L’ultimo, in compagnia della London Symphony Orchestra, è uscito il 23 aprile 2021, ma risale all’ottobre del 2008 e fotografa quello che Toumani Diabaté chiama un incontro storico: “La kora non era mai stata registrata come solista con un’orchestra sinfonica. Abbiamo avuto a disposizione solo qualche ora per le prove a ridosso del nostro primo concerto insieme. Alcuni orchestrali non avevano mai visto una kora prima di quel concerto! Suonando con loro ho sentito uno straordinario senso di libertà, è stato come se avessimo suonato insieme da sempre, un’esperienza unica”. Non è un’osservazione da poco, se si pensa che l’ultimo disco realizzato da Diabaté in quel periodo riguardava le “Mandé variations”, secondo album registrato in solitudine frutto di un’esplorazione musicale a 360° intrecciando riferimenti che vanno da registri griot, a scale del mondo arabo, dal soggiorno britannico segnato dal reggae, a rimandi a Ennio Morricone.
Il nuovo album offre la registrazione del concerto commissionato dal Barbican Centre con la London Symphony Orchestra per il quale Diabaté chiese al direttore Clark Rundell e ai due arrangiatori, Ian Gardiner e Nico Muhly (allora collaboratore di Björk), di scegliere brani da “Mandé Variations”, e dalle collaborazioni con Ali Farka Touré, in particolare l’album “In the heart of the moon”.
“E’ stato davvero un piacere suonare con l’orchestra, una collaborazione alla pari. I musicisti si sono stati molto accurati, suonando con molta delicatezza, passione ed amore. Hanno offerto davvero il meglio di sé e così ho fatto io. Ringrazio Dio d’avermi offerto questa opportunità”.
Il primo dei sei brani, “Haïnamady Town”, è uno dei tre in cui la kora apre in solitudine riprendendo un antico canto di lode, “Kata Ndao”. Si sviluppa grazie ai contrappunti fra kora, archi e fiati grazie agli arrangiamenti curati da Ian Gardiner cui Diabaté aveva inviato una registrazione in cui cantava per lui la melodia. Nell’introduzione, la kora si prende il suo spazio per far apprezzare con brevi frasi la sua paletta sonora. Dopo un minuto abbondante, offre all’orchestra il binario ritmico-melodico di “Kata Ndao” ed il resto degli strumenti entrano delicatamente in azione, cominciando a sviluppare i contorni melodici con i flauti e con i violoncelli, per poi lasciare quasi in solitudine la kora a chiudere il brano.
Un altro brano, “Djourou Kara Nany”, dal repertorio di Sidiki Diabaté, viene riletto in chiave minimalista da Nico Muhly (allora al suo quinto anni di collaborazioni con Philip Glass) nel successivo “Mama Souraka”. In questo caso è l’oboe a guidare il dialogo con l’orchestra ed è soprattutto il balafon di Lassana Diabaté a inventare, in chiave ritmica, tessiture che sollecitano sguardi nuovi su questo brano storico. Gli arrangiamenti di Nico Muhly coinvolgono esplicitamente anche la Symmetric Orchestra, il gruppo mandinka con cui Toumani tiene concerti ed incide dal 1992 e che qui coinvolge e chitarre acustiche ed elettriche di Fanta Mady Kouyaté, lo ngoni di Ganda Tounkara, le percussioni di Fodé Kouyaté e la voce di Kasse Mady Diabaté.
Le “Mandé variations” sono poste al centro del repertorio con “Elyne Road” and “Cantelowes Dream”, due brani dedicati al periodo in cui, alla fine degli anni Ottanta, Diabaté viveva a Londra e a due sue vie, omaggio a due dei loro abitanti, rispettivamente il produttore Nick Gold e l’etnomusicologa Lucy Duran. Il primo evoca l’atmosfera rilassata e familiare dei party a casa di Gold e il periodo di successo degli UB40, mentre il secondo comincia citando il tema di Morricone da “Il buono, il brutto e il cattivo” per poi dilatarsi nell’arco di dieci minuti, introducendo “Diarabi”, tradizionale canzone d’amore mandinka su cui la kora intreccia un riuscito duetto con il flauto traverso di Celia Chambers.
La chiusura dell’album è affidata ai due brani tratti da “In the heart of the moon”, con il balafon di Lassana Diabaté protagonista insieme alla kora di “Moon Kaira” e la voce Kasse Mady chiamata da Ian Gardiner a rileggere “Mamadou Kanda Keita” volando alta su una trama ben articolata ed amalgamata di linee melodico-armoniche dalle diverse sezioni orchestrali.
Alessio Surian
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