Lautari – Fora Tempu (Italysona/Musica Lavica Records, 2021)

Torno a scrivere della mia Sicilia e lo faccio con una cosa che, da bravi figli di Pirandello, ci contraddistingue: la doppiezza. Siamo anche figli dei greci, e pensare in siciliano è come quando fai una versione di greco: hai un significato letterale ed un significato figurato. Per esempio, “fora tempu”: letteralmente indicherebbe, in questo caso in riferimento ad un contesto musicale, qualcuno che, per l’appunto, non rispetta il tempo musicale. In senso figurato, ed è l’accezione sicuramente più poetica, uno “fora tempu” è quasi un sognatore, un utopista, forse addirittura un illuso, ma anche uno che non si pone il problema di essere “sbagliato” in un mondo, se possibile, più “sbagliato” di lui. Ecco, questo secondo significato è un perfetto biglietto da visita dei Lautari (Puccio Castrogiovanni, Gionni Allegra, Marco Corbino, Salvatore Assenza e Salvo Farruggio), trentacinque anni di carriera, concerti in giro per il mondo, collaborazioni con, fra gli altri, Carmen Consoli, Goran Bregovic e Gabriele Lavia, che tornano, a quasi dieci anni di distanza da “C’era cu’ c’era”, con un nuovo album di inediti, dal titolo, guarda un po’, “Fora Tempu”. Un lavoro, capirete bene, programmatico, che si apre con la title track, scatenato invito a riprendersi il proprio tempo e ad accantonare la tanto decantata efficienza. A sorreggere la ritmica ci pensa una chitarra acustica in levare, seguita a ruota da una fisarmonica che fa da contrappunto, mentre i fraseggi dei fiati squarciano la trama sonora, dandogli ulteriori sfumature. Sapori e colori arabi, resi magnificamente da un pattern di percussioni sabbioso a base di riq, daf e darbouka, su cui si incastrano alla perfezione oud e mandolino, colorati ulteriormente dai fiati, contraddistinguono “Trazzera dei briganti (u’ regnu)”, sempre in traduzione, ndr “Se ti raccontano la storia, esce dalla tua memoria, menzognero chi la racconta, è un vicolo cieco. Se ti raccontano questa storia mangi mandorle e cicoria, menzognero chi l’ha detta, è una strada maledetta”. Giro del mondo artistico che prosegue tingendosi dei profumi carioca di “Cori coruzzu”, delirante carnevale musicale segnato dai fraseggi imbizzarriti del clarinetto e dal colorato contributo di un cavaquinho, che poggiano su una linea di contrabbasso avvolgente e dinamica. “Paisi di tri soddi” ci riporta in Sicilia, con la fotografia di un paesino e delle sue piccole storie, in una narrazione che si muove casa per casa e strada per strada, non tralasciando neanche la tipica ironia paesana. Ritornano gli scatenati ritmi in levare, ben sostenuti da una chitarra elettrica, con i fraseggi di mandolino, clarinetto e fisarmonica a portare colore nella dinamica. Atmosfere dilatate, quasi languide contraddistinguono la delicata “Sù li stiddi”, elegante e toccante poesia d’amore, scandita da un morbido arpeggio di chitarra classica, riempito da un mandolino sognante e da un un denso tappeto di fiati. Spartiacque del lavoro è “Peddi nova” (“Sento che la voce non mi aiuta, io la cerco e lei muore nell’aria. Vorrei stare in mezzo agli altri, vorrei farmi scorticare”), scritta, composta e cantata (in italiano) da un altro enorme narratore della Sicilia quale è Cesare Basile. Un brano che ha un incedere a tratti difficoltoso, quasi asfissiato, che cresce e si libera nel finale, come ben testimoniato da una chitarra che parte arpeggiata e termina in strumming, e che poggia perfettamente su un pattern di percussioni avvolgente e spesso. “Melquiades” prosegue sul solco della musica in cammino ed è un vorticoso omaggio alla grandezza di Gabriel Garcia Marquez, sostenuto da una chitarra acustica su cui si infrangono i deliranti fraseggi di fisarmonica e clarinetto, legati da una sezione ritmica imponente, sorretta da una linea di basso tempestosa. Su “Salti del tempo” i latini avrebbero tirato fuori il loro proverbiale nomen omen: siamo di fronte ad un brano che fa del cambio di ritmo e di incedere la sua caratteristica peculiare, in un’atmosfera rarefatta, notturna, che racconta di distacco, resa perfettamente da uno struggente arpeggio di chitarra che poggia su un tappeto di fisarmonica, su cui le incursioni di clarinetto suonano quasi buie. Segue “Zà Monica” (“Datemi la musica per ballare, e tanta gente da incontrare. Datemi tempo per pensare, datemi aria per respirare. Due occhi belli a cui dedicare canzoni, per cantargliele sotto il suo balcone. Datemi un albero su cui salire, per guardare il mare da lassù”), uno dei momenti più belli dell’album, in un racconto di nervosa, catartica e carnale liberazione, cadenzato da un bouzouki su cui la linea di contrabbasso si sposa perfettamente. La voce potente di Simone Ardita, che abbiamo già incontrato fra queste righe quando abbiamo parlato della Piccola Orchestra Jakarànda, si incastra splendidamente con quella di Puccio, in una canzone che suona libera e con la brezza in faccia. Anche “Li cristiani” (“Le persone della Terra di Sotto hanno una storia troppo brutta. Loro camminano nel deserto, campa solo chi è più scaltro. Poi prendono la via del mare ma non imparano mai a nuotare, e se li mangiano i cefali, quelli stupidi e quelli scaltri”) è perfettamente calato nell’atmosfera siciliana, con un marranzano ossessivo, contrappuntato da una bifara e da un clarinetto, in un brano che diventa un potente j’accuse contro l’ipocrisia del mondo occidentale. Chiude il disco “Volare (per Angelo)”, un commovente ricordo di Angelo D’Arrigo, leggendario aviatore catanese che volava con le aquile, aperto da un arpeggio di chitarra classica, colorato dai profondi fraseggi della fisarmonica e da una ammaliante linea di contrabbasso, mentre l’ingresso di mandolino nel ritornello, unito ai fraseggi di clarinetto, fa decollare l’atmosfera verso altezze degne di Angelo. In conclusione, il ritorno dei Lautari coincide con un album puro, senza orologi al polso né passaporti in tasca, un album che viaggia per il mondo prendendosi il suo tempo, un lavoro da custodire con cura, perché rimette al centro l’importanza della narrazione, la bellezza della musica suonata e, soprattutto, la necessità dell’ascolto, di un ascolto consapevole ed attento. Con il lusso di andare… fora tempu!


Giuseppe Provenzano

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