Il Vino di Piero

“...eh, se ci fosse ancora Piero, con il suo fiasco di vino gelato, ad intagliare i nostri cuori di legno col suo viso disperato...”  
(Massimo Bizzarri, 1983)
Se uno beve vino non è certo perché ha sete. Per quello c’è altro. Da parecchio nella canzone d’autore italiana “l’artista che beve” è cosa rara e, di questi tempi, pure fuori moda, ne è passato di tempo da quando Francesco Guccini se lo portava sul palco e nell’Avvelenata consegnava ad una bottiglia il proprio delirio contro le ipocrisie e le falsità d’intorno. Visto da lontano, bere quel vino oggi sembra una delle tante immagini sbiadite di una lontana, squattrinata Italia in bianco e nero, quando pareva un’arte anche tirar tardi la notte in una qualche osteria e fare l’alba. Un’Italia che non c’è più, quella che correva all’impazzata verso il boom, sbarazzandosi del vecchio per far posto al nuovo che avanzava veloce. Quel boom che c’è stato e se n’è anche andato, lasciando tutto ancora più smarrito, indifferente e corrotto di prima, in mano a pescecani affamati, non certo di poesia. Oggi quello è l’ultimo pensiero del menù sociale, la gente per strada è divorata dalla fretta, sempre al telefonino, in miseria o in dieta e ha inventato i pranzi di lavoro. Immagino che Piero Ciampi, se fosse rimasto qui, avrebbe cantato ancora di meno e avrebbe bevuto sempre di più. Quando all’inizio degli anni 70 scrisse “Il Vino”, gli bastarono pochissime righe scandite lentamente per raccontare la storia e la contro-storia del compagno a cui aveva scelto deliberatamente di affidare l’anima in questa vita terrena. Le sue parole donavano fisicità al vino che non appariva “buono” bensì “bello” nei suoi colori bianco o rosso. A differenza del comune senso di sentire, per Piero la salute e l’equilibrio fisico ed intellettuale erano garantiti, non minacciati, dal vino che gli assicurava la diffidenza indispensabile contro la la confusione e la pericolosità degli “altri”. 
Tanti anni prima in Francia, Baudelaire aveva dato voce all’anima del vino (1) in riconoscenza verso chi con pena e sudore l’aveva messo al mondo. L’aveva fatta cantare dalla sua prigione dentro la bottiglia, un canto colmo di luce e fraternità verso quest’uomo caro e diseredato. Per farlo partecipe della gioia che provava nel lasciare le fredde e umide cantine per scendere nella sua gola stanca e andare infine a morire nella tomba di quel petto caldo “...cadrò in te, prezioso grano sparso dal Seminatore eterno perché dal nostro amore nasca la poesia...”. Chi ha conosciuto Piero mi ha detto un giorno che pareva sempre elegante e sobrio. Ma non era quasi mai la verità. Ha scritto il poema della sua autobiografia, non in modo vago e indefinito ma in maniera circostanziata e precisa. Senza dimenticare fazzoletti, dentifricio o colore delle valigie. Spesso perfino i nomi citati erano reali, in “Il Natale è il 24” li mette in fila: Pino è Pavone, Elio è Colosimo, Francescangelo è Franco Palmisano, un nobile in disgrazia, Gianna è la moglie di Marchetti, che soffriva di problemi al cuore e poi naturalmente il fratello Roberto, che era stato davvero ricoverato all’ospedale. Le semplici parole delle sue canzoni rappresentavano piccole azioni dell’esistenza ma, come per incanto ci trapassano ancor oggi e ognuna di loro si trasforma in una nota musicale e quell’intero poema pare il dizionario sonoro della vita quotidiana. E questo forse proprio perché Piero non era per niente sobrio. Ne "Il Natale è il 24” decide di affrontare gli avvenimenti prendendo la decisione di spostare le date sul calendario della sua vita. Le sue canzoni, alimentate da questa spietata, quasi distaccata, introspezione, sono rimaste immutabili nella loro mancanza di 
auto-indulgenza. Ad un certo punto del testo dichiara in maniera agghiacciante "mio fratello la madre non l'ha più" come se la cosa non lo riguardasse. Ma aveva ragione lui, il Natale è oggi, qui, ovunque e anche nell’isola di Livorno, ora che la realtà pare essere entrata nella sua visionaria canzone. Perché Piero non osserva semplicemente ma si guarda vedere, guarda per vedersi guardare e verso quel che vede non utilizza compromessi. Le lenti del suo binocolo rovesciato mostrano le persone attraverso la coscienza. E questo esclude quasi fatalmente le possibilità di rapporto con gli altri e qualsivoglia appartenenza. Anche quei legami magari sottili ma solidi e duraturi che pure lui ha anelato invano e che sovente salvano la vita di una persona. Quei rapporti che, come piccole pratiche psicoterapeutiche, intessiamo spontaneamente o inconsciamente, quando creiamo amicizie ed affetti, nelle nostre condivisioni, nel nostro lavoro, nella società a lui paiono meramente un subdolo aspetto dell’illusione e gli vengono pertanto negate dal proprio stesso comportamento. Le sue canzoni e le sue poesie hanno concorso alla creazione di una perfetta solitudine di poeta e di uomo, che per lui sono un’unica cosa. Contemporaneamente ogni aspettativa affettiva è delusa e perduta. Fino all’epilogo. Pino Pavone lo ricorda col cuore in mano: “Quell’indirizzo c’era e non c’era, se lo chiamavi non rispondeva...quel cane poi non era vero, era un riflesso del pensiero ma stava lì su quel gradino proprio come un inquilino, la casa di Piero è acqua passata ma quella strada non è cambiata, non è cambiata quella salita che lascia i ricordi e prende la vita.”(2) E’ crudo dirlo ma una condizione veramente drammatica si cela dietro le canzoni che abbiamo tanto ascoltato con passione e con immenso piacere. Chissà se Piero aveva mai letto una poesia del 1857 di Baudelaire intitolata “Ubriacatevi”, nella mia fantasia, è da molti anni che ho voluto immaginare ingenuamente fosse stata scritta per quando sarebbe arrivato lui:
Bisogna essere sempre ubriachi. E’ tutto qua: è l’unica questione.
Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza le spalle e vi fa pendere verso la terra bisogna che vi ubriachiate senza tregua. 
Ma di che cosa? Di vino, di poesia, d’amore o di virtù a vostro piacere. Ma ubriacatevi.
E se qualche volta sui gradini di un palazzo, sull’erba verde di un fosso, nella cupa solitudine della vostra camera, vi risvegliate, l’ubriacatura già diminuita o sparita,
domandate al vento, all’onda, alla stella, all’uccello, all’orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme, a tutto ciò che rotola, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, domandate che ora è ed il vento, l’onda, la stella, l’uccello, l’orologio vi risponderanno “È ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati dal Tempo, ubriacatevi. Ubriacatevi senza smettere! Di vino, di poesia, d’amore o di virtù, a vostro piacere.”
Ma Piero Ciampi non è stato dimenticato. Il più bello, il più bravo, quello che non perdonava, quello che ogni sera mandava una preghiera a chi aveva fregato gli americani, non con il sangue dei suoi compagni ma con lo sguardo. Quello a cui un merlo insegnava le canzoni. Il caso ha voluto che a Livorno la casa dove nacque si trovasse proprio di fronte a quella dove ebbe i natali Amedeo Modigliani. Anche a Catanzaro dove andava a trovare Pino Pavone, oggi i giardini della Gutta, sul lungomare, gli sono stati intitolati e sulle panchine colorate si possono leggere i versi delle sue canzoni. C’è stato un tempo, nell'estate del 1975, che nei juke-box sulle spiagge italiane, inserivi la monetina e ascoltavi questo trascinante 45 giri appena uscito di un cantante che nessuno conosceva. Tutti sghignazzavano e leccavano il gelato. E siamo ancora qui a ricordare una voce che ha lasciato impronte e cicatrici su questo nostro bel mondo poetico. Un'anima alcolista e fannullona. 
Inaffidabile e spesso insopportabile, mentitrice e millantatrice. Ma che probabilmente aveva intuito molto in anticipo. La canzone era “Andare, camminare, lavorare”. Ora tutto sta diventato mitologia. Ho sentito Antonello Venditti dichiarare pubblicamente di aver accompagnato Leonard Cohen ad ascoltare un concerto di Piero a Roma. Forse sarà anche vero ma quando mai è riuscito a fare un concerto tutto intero, senza che finisse tutto in baruffa, Piero Ciampi?! Forse solo al Club Tenco nel 1976 ma anche lì, la storiografia ne racconta delle belle! Qualcuno di autorevole ha anche scritto in un libro che a Parigi lui e Cohen si erano incontrati, mah, io ho seri dubbi! Adesso Piero non incontra più nessuno in qualche osteria di Livorno, Roma, Catanzaro o Parigi. Forse non esistono quasi più neanche le osterie. Il Cimitero della Misericordia si trova lungo via dell’Ardenza. Confina col il Cimitero della Purificazione, mentre un suo lato è delimitato dal corso del Rio Maggiore, uno dei più lunghi e capienti provenienti dalle colline, assieme al Tora, al Savalano, all’Ugione o all’Ardenza stesso. Questa grande valle scavata dal corso d'acqua ha preso il nome di Valle Benedetta. E benedette siano le poesie di Piero, poesie del “chi perde, vince”, benedette siano le sue canzoni, a cominciare da “Il Vino” per finire con “Tu no” che non vale meno e dice l’identica cosa di “Ne me quitte pas” di Jacques Brel.


testo e traduzioni a cura di Flavio Poltronieri
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(1) Una versione tradotta e interpretata da Gianluigi Cavaliere è presente nel CD omonimo (2001) dei Chantango
(2) La Casa di Piero (da: La Vita è Dispari – 2015)

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