Elisa Carta – S’Incontru (I.R.D./Maremmano Records, 2008)

Un album, o quantomeno un album ben fatto (dove “ben fatto” vuol dire, segnatamente, fatto per necessità comunicativa) mette al centro di tutto il racconto di una storia: raccontare la propria storia è il filo comune - in quanto universale - di ogni lavoro, non solo di quelli a sfondo musicale. Finisce per essere costantemente il nucleo centrale perché, come dicevo, è il linguaggio più diretto, quello per cui non sono richieste particolari conoscenze tecniche, ma solo, si fa per dire, spiccate competenze emotive. Raccontare una storia è incrociare le storie degli altri, e parafrasando una famosa massima si potrebbe dire che il racconto è l’arte dell’incontro. Un racconto è il senso più profondo della fratellanza, significa affidare le proprie storie e le proprie emozioni all’altro, basandosi su un patto non scritto di fiducia e comprensione, e scusate se è poco, soprattutto di questi tempi. Racconto ed incontro, citati non a caso, sono gli ingredienti fondamentali di “S’incontru”, prima prova in studio di Elisa Carta nel quale il racconto della sua Sardegna si interseca con l’incontro di mondi musicali internazionali, frutto di anni di ricerca e di studio. Ad aprire il disco è proprio la title track, scandita da un delicato pianoforte ad accompagnare la voce calda e profonda, con un primo verso che è già programmatico, “Dimmelo tu chi sei”, raccontati. Lo slide di un basso languido introduce l’ingresso della sezione ritmica, che va a completare l’atmosfera jazzata. Un denso cantato a cappella apre “Chin donzi peraula”: toni noir, una chitarra elettrica che squarcia ed un pattern di batteria indiavolato, accentuato da una linea di basso avvolgente, contraddistinguono una canzone che suona quasi come una preghiera laicamente carnale. Un riff sporco con una sezione ritmica ruvida colorano di nuance blues “Mela Granada Ruja”, racconto straziato di una fine, “Mamma lascia piangere la stella della sera, ho freddo e sonno. Comprimi di terra e cantami la ninna nanna”. A seguire, troviamo “Maja” dall’atmosfera dilatata e quasi sospesa, aperto da un maestoso tappeto di archi e riempito da piano e chitarra, su cui la voce della Carta si incastra alla perfezione. Le dodici battute blues tornano in “Mesu caminu” con gli strappi impazziti di un’armonica ed i fraseggi elettrici di una chitarra, montati su una sezione ritmica giocata sull’incontro fra il rullante e una linea di basso incessante. Il giro di boa dell’album è “Fue”, brano dai sapori mediterranei, aperto da un bel pattern di percussioni e scandito dal delicato ed elegante arpeggio di una chitarra classica, contrappuntata da una linea di basso che fa da elemento di colore. I fraseggi di fisarmonica trasportano l’atmosfera verso uno splendido viaggio col vento in poppa, aiutati dall’interessante contributo della slide guitar. Il testo racchiude il racconto di un costante ed irrefrenabile viaggio, non esclusivamente fisico: “L’aria si ferma, non c’è più notte né giorno. Adesso sono ovunque, fuori dal mio corpo”. “Su chi mancat” è un interessante incontro - guarda caso - fra colori elettronici, tocchi mediterranei e spruzzate di folk. Un profondo tappeto di fisarmonica, dinamizzato da una sezione ritmica ossessiva, fa da sfondo alle incursioni acide di un bouzouki e di una chitarra elettrica, in una raffinatissima operazione di commistione musicale e culturale. Si prosegue con il sentito omaggio a Pino Daniele, con la sua “Occhi grigi”, pubblicata originariamente in “Bonne Soirèe”, e qui riletta in una malinconica versione dai tratti mediterranei in cui l’elettronica avvolge il dialogo tra chitarre, bouzuki e percussioni. Altro tributo è quello al repertorio di Maria Carta con “Efisio Concas” ispirata al brano omonimo contenuto in “Canto Rituale”. L’arrangiamento è scandito, anche in questo caso, da un interessante incontro fra varie anime musicali: un contrabbasso dà colori jazzati, il tappeto di fisarmonica dilata l’atmosfera, resa più cupa dai fraseggi del dobro - con e senza slide - e dagli squarci della chitarra elettrica, che si lascia andare ad un solo particolarmente toccante. Chiude l’album “Goceano”, aperta da una lunga e fresca introduzione strumentale, con i fraseggi di un bouzouki a colorare la linea di basso e l’ingresso della fisarmonica a regalare ampiezza. E’ un affresco della Sardegna, con lo scorrere dell’acqua ed il cinguettare degli uccelli che finiscono di disegnare il paesaggio, reso ancora più evocativo da un testo che è una poesia: “Goceano, mare di nuvole basse, fondale di chiese e di case sommerse. Il paese trattiene il respiro, nell’aria il profumo del timo. Ogni quercia il cuore si allarga, per ogni vite un sospiro”. Concludendo, ci troviamo di fronte ad un lavoro certamente ispirato, spinto da quel bisogno comunicativo di cui parlavo all’inizio: la potenza del racconto riesce a rendere universali delle storie e delle atmosfere profondamente legate alla Sardegna e splendidamente interpretate dalla voce di Elisa Carta, che tira fuori una prova vocale mai esagerata ed, anzi, con un perfetto pathos teatrale. Un album che vola libero verso vette musicali e culturali altissime, una prova genuina e sincera di affetto verso la propria terra. E, fortunatamente, anche verso noi, che ascoltiamo. 

 
Giuseppe Provenzano

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