Rhiannon Giddens with Francesco Turrisi – They’re calling me home (Nonesuch Records, 2021)

Un incontro più che proficuo quello tra Rhiannon Giddens e Francesco Turrisi, che poco più di un anno fa hanno debuttato con “There is no other” – album straordinariamente denso e perfettamente interpretato, che ha ricevuto i migliori apprezzamenti sia da critica che da pubblico – e ora ritornano con questo malinconico “They’re calling me”. Album da lockdown, è vero (questi sono i tempi e meno male che i musicisti non si lasciano sopraffare), ma ispiratissimo: i due polistrumentisti si incontrano in una dimensione retrospettiva, lasciandosi ispirare e trasportare dai richiami di espressioni tradizionali distanti ma unite, diverse ma vive e sufficientemente spugnose da assumere nuove forme (“Si dolce è ‘l tormento”). Forme sempre più convincenti, direi, perché la scaletta elaborata dal duo non lascia spazio a nostalgie né si ciondola a contemplare la fondatezza storica dei repertori tradizionali (“I shall not be moved”). Al contrario, l’elaborazione procede nella direzione di un’interpretazione spontanea: come spontanee e indipendenti sono state la scelta dei brani e la loro definizione musicale. Sulla scorta del successo del loro album precedente, strutturato in modo più esplicito sull’idea dell’incontro e inquadrato in un confronto costante tra più strumenti e “dimensioni” musicali, i due musicisti hanno qui ricondotto la loro idea alla sottrazione (“Amazing Grace”). A un’immagine musicale, cioè, che potesse aderire più direttamente al lockdown, alla stasi, alla sospensione e alla distanza. L’aderenza è perfetta e felicemente rappresentata. Non tanto dall’impianto musicale che, sulla base di queste premesse, si presenta volutamente asciutto, elaborato in una prospettiva di sintesi. Quanto dalla scelta dei brani (tradizionali americani e italiani) che, nel loro insieme, tratteggiano un racconto in qualche modo sospeso, quasi pensato, sospirato e non propriamente detto, narrato (“Nenna Nenna”). In questa prospettiva, si arriva a definire il carattere profondo e indomito di una narrativa (anch’essa) sospesa: la si afferra nel trasporto dei suoni in cui è incastonata, così come nelle immagini lontane, simboliche, a tratti mitologiche, che evoca. Ascoltando, così, lo scorrere dei dodici brani, si respira il pieno valore di un album sempre profondo, respirato fin nei più piccoli dettagli, modellato su sensazioni più che su idee, su percezioni più che programmi: sembra volerci sussurrare un mondo pieno di grazia, pur nella contraddizione degli elementi che evoca e dello scenario entro cui li si esprime, e consegnare alla contemporaneità un supporto alla riflessione e alla “ragione” (“Avalon”). Il suo merito più grande resta, in ogni caso, la delicatezza con cui si affrontano i brani. I quali, sostenuti e misurati, poggiano inevitabilmente sulla voce straordinaria della Giddens, che diviene l’elemento primario della narrazione (“Calling me home”). In questo quadro, pur riconoscendo la preminenza del canto, ogni nota dei pochi strumenti (violino, banjo, chitarra, fisarmonica) appare fondamentale, così come ogni singolo battito di percussione. Tra gli esempi più significativi di questo andamento splendidamente azzoppato dalla sottrazione vi è “O death”, brano fosco e teso, riportato nell’album con sola voce (anzi con sole voci) e percussioni, in un ritratto essenziale e inevitabile della cupezza dei tempi che corrono. È evidente che i due autori hanno chiara la genealogia delle canzoni che compongono l’album e che, nel solco di questa consapevolezza, siano riusciti a ripristinarne significati e riferimenti. Non è affatto scontato che, scegliendo e interpretando temi così caratterizzati, il risultato possa raggiungere un livello formale alto al punto da riconoscere a “They’re calling me” un posto di primo piano tra gli album più riusciti di quest’ultimo periodo. 


Daniele Cestellini

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