Rivisitazioni contemporanee del folklore musicale del mondo arabo producono vocalità espressive ed eccellenti intrecci strumentali nel disco di debutto di Natik Awayez. Costruito sugli arrangiamenti percussivi di Khaled Yassine, l’album si erge su un ensemble di cordofoni che include ‘ūd, violino e buzuq. Su quest’architettura volteggia la voce di Awayez in una serie di brani tematicamente connessi in un viaggio (o più correttamente un esodo) fisico e spirituale verso la redenzione, inevitabilmente zavorrato da tribolazioni e alleggerito da preghiere. A suggerirci quest’interpretazione sono sicuramente i titoli, ma anche la storia personale di Natik Awayez. Nato vicino le foci del Tigri e dell’Eufrate in Iraq, il cantautore si vede costretto a migrare nel 1979, spostandosi prima in Bulgaria e poi in Yemen, al confine con l’Arabia Saudita. Lo scoppio della guerra civile lo forza a spostarsi nuovamente, questa volta in Svezia e poi in Egitto. La costante nelle sue continue rilocazioni è la musica, ma è a Il Cairo che sedimenta le basi del disco collaborando con alcuni dei musicisti più noti della zona: il produttore Maurice Louca, Tamer Abu Ghazaleh e Maryam Saleh (Lekhfa), Aya Hemeda Adham Zidan (The Invisible Hands), Khaled Yassine (Alif/Lekhfa) Ayman Asfour (Elephantine). Troviamo quindi molti degli elementi caratteristici dei linguaggi musicali della zona come cicli ritmici in tempi dispari, unisoni melismatici tra ūd e violino in risposta alla voce e l’utilizzo di microtoni e del maqam. La forma, tuttavia, rimane quella della canzone popolare, ben diversa dalle strutturazioni del mondo classico arabo.
Lo sentiamo in brani come “The Land of the Exiles” o “You Don’t Mind”, dove la voce e il testo sono chiaramente gli elementi centrali dei brani. Questo non significa che manchino momenti di esplorazione strumentale e solistica, i brani sono infatti spesso relativamente lunghi e introdotti da composizioni melodiche o arricchiti da esplorazioni solistiche. Tra questi spicca “The Exodus”, con la sua introduzione di ūd che prepara l’orecchio all’ingresso vocale. Eccellente l’assolo di violino che distrae dall’efficacissima ripetitività ciclica del groove, simbolismo musicale sicuramente intenzionale che vuole sottolineare la condizione dell’esodo. Eccentrico ed intenso, il 10/8 di “Al-Jumhuriya Bridge” saprà soddisfare chi si addentra nella musica mediorientale per il fascino dei suoi ritmi. Consiglio in particolare la coppia di brani “The South” e “Who Moulded Me”, dove il primo è un’introduzione a metro libero del secondo. In particolare, il lavoro di ūd in “The South” è eccellente e sperimentale, quasi chitarristico ed essenziale per la riuscita di questo brano pittoresco dove la voce dipinge con toni chiaroscuri.
“Manbarani” è un disco estremamente piacevole, dove il folklore regionale del Medio-Oriente incontra arrangiamenti moderni e vocalità espressive. Un disco dove le conseguenze del viaggio e della fuga diventano occasioni di scoperta ed espedienti narrativi. Come spiega lo stesso Awayez:
“In Iraq è la sorgente, l’anima in Yemen. Il Cairo mi ha regalato frammenti di tempo, una modesta dimora, una manciata dei suoi migliori musicisti, e tanto amore”.
Edoardo Marcarini
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