Mettersi a raccontare la Sicilia è operazione estremamente difficile: tanti umori da evocare, tante sfumature da cogliere. Senza contare che quando ti trovi come predecessori Consolo o Scaldati, giusto per non citare i nomi più mainstream, o Calaciura e Cappellani, arrivando ad autori nostri contemporanei, è ancora più facile immaginare quanto sia coraggioso misurarsi con racconti del genere. Capita poi che, invece di cercare una chiave narrativa fatta di descrizioni minuziose ed attente, se ne vada a pescare un’altra che opera per sottrazione e - proprio per questo - gioca sul detto e non detto, una delle peculiarità della cultura sicula. Il detto e non detto, snodandosi lungo i versi di una canzone, si discosta dall’accezione sicula dura e pura, per trasformarsi in un meccanismo narrativo composto da un insieme di elementi distintivi, ora accennati ora espressi più fermamente, che vanno a comporre il mosaico della nostra isola. E con “nostra” intendo, ovviamente, mia e di Marco Corrao, autore del disco di cui sto, a mia volta, per raccontarvi. Del cantautore orlandino, giunto alla quinta prova discografica, ci eravamo già occupati in occasione della pubblicazione di “Pietre su pietre”, disco uscito lo scorso anno. A breve distanza da quest’ultimo arriva “Nebros Vol.1. Storie e antichi echi”, racconto immaginifico e fotografico dei suoi Nebrodi, un album intriso di Sicilia, di quella Sicilia di una volta a metà fra le spiagge riarse ed il verde dei boschi che sopravvivono agli incendi, una costante deliziosa per il siciliano. L’album si apre con “Cununi”, racconto delle vicende di San Cono (che è il patrono di Naso, piccolo paese del messinese) sorretto dall’incontro fra il pattern di percussioni e la chitarra acustica, mentre un tappeto di elettronica e chitarra elettrica riempie il pezzo, facendolo uscire da un altro spazio-tempo. Segue “Beppe”, canzone dedicata a Beppe Alfano, giornalista ucciso da Cosa Nostra nel ’93. Un pezzo sostenuto da un sottofondo di elettronica denso e largo, quasi a scandire le ultime parole di Alfano, con degli squarci di armonica a fare da nota di colore ed una parte vocale quasi recitata, incessante e definitiva, che ben si sposa con un testo durissimo- traduco- “sono morto con tutta la soddisfazione/di guardarvi, quando mi sono girato,/in quelle facce/spaventate e bianche/di persone comandate e farabutti/ però vi perdono/c’è cosa peggiore di morire rancorosi e soli/a voi non darò questo sazio/ e, con gli occhi aperti, vi ringrazio”. “San Giuseppi”, dedicata al santo venerato come Patrono in molti comuni della Sicilia, prende le mosse dalle preghiere che i pescatori di Sant’Agata di Militello (stavolta ci spostiamo in provincia di Catania ndr) recitano durante la processione che accompagna la statua verso la Marina, zona portuale del paese. Colpisce il lirismo della preghiera del pescatore che non chiede mai sovrabbondanza nel pescato: si limita ad invocare il minimo indispensabile, oltre alla protezione dalle tempeste, non solo marittime. Dal punto di vista musicale il brano è incentrato sullo strumming di una chitarra che regge la ritmica, colorata dai fraseggi blueseggianti dell’acustica solista, con gli archi che aprono ed allargano sul ritornello. “Chianci e ridi” pone come focus narrativo la duplicità del popolo siculo, il suo enorme numero di contraddizioni e doppiaggini umorali. Ed è proprio la reiterata alternanza antitetica fra riso e pianto a scandire un pezzo che poggia musicalmente su un tappeto di elettronica, colorato da un ciondolante ed ondivago arpeggio di chitarra elettrica. “Quannu chiovi” vede la partecipazione dell’organetto di Riccardo Tesi, ed è una drammatica richiesta di pioggia, invocata per spegnere gli incendi - dolosi, è sempre bene sottolinearlo - che ogni anno, puntualmente, si mangiano interi ettari del parco dei Nebrodi, lasciando un paesaggio spettrale in cui “resta il silenzio ed il monte spogliato/dio, quando piove? Quando piove?”. In questo caso, il già citato organetto di Tesi si occupa di contrappuntare un dolente arpeggio di chitarra, che poggia, a sua volta, su una struttura elettronica. Decisamente diversa è l’atmosfera di “Panaru”, brano che fa incontrare delle venature country con il fondamentale apporto etnomusicologico di Alain Lomax: il pezzo prende, infatti, le mosse da alcune registrazioni che Lomax fece a Mirto, in provincia di Messina, durante la raccolta delle olive. Il gesto del passaggio di questo “panaru manu cu’ manu”, dove per “panaru” si intende un paniere, classicamente di vimini, fa da punto di partenza per una storia che profuma di tempi antichi, di tradizione, territorio e convivialità, in un pezzo che fa della circolarità espressiva il suo punto forte, con una metrica del testo a tratti incessante, ben sorretta da un reiterato riff di chitarra acustica, che si poggia su un sottofondo di glockenspiel. L’ingresso dell’elettronica nel ritornello dilata il pezzo e ne accentua, complice la vorticosità del ritornello, la ciclicità di cui sopra, mentre gli sbuffi dell’armonica rimandano, appunto, a nuances country. Altra interessante allegoria arriva da “Trippodu”, che, partendo dal sostegno che solitamente si usa per sorreggere le pentole, il “trippodu”, appunto, letteralmente “treppiedi”, arriva a tracciare un ritratto della Sicilia, qui cantata con un appassionato trasporto, “O Terra di santi e dolori/ti prego, non ci abbandonare/fai campare (da intendersi come “sostieni/ sostenta”) questi tuoi figli,/che senza di te sono nulla/ e lasciano madri e parenti/ per andare a cercare dove nulla è per sempre”. Brano giocato su un interessante incastro di chitarre, fra elettriche ed acustiche, arpeggi e fraseggi, ritmato da una linea di basso profonda e riempito da un tappeto di elettronica e synth. Chiude il disco la title-track, pezzo quasi pittorico per la sua capacità di dipingere in musica un paesaggio come quello nebroideo. Si tratta di una canzone influenzata da venature soul, scandite dal pattern di batteria e sporcate da chitarra elettrica ed interventi dell’elettronica. L’unica nota non stonata, ma assente è che un pezzo con quel tiro lì avrebbe meritato un po’ di groove in più, magari portato da una linea di basso incisiva. In realtà, il contraltare di questo aspetto è che la canzone riporta ad un’atmosfera acquosa e languida che racconta benissimo dell’acqua che, verde e lenta, scende e scorre. Siamo, come detto all’inizio, di fronte ad un racconto puro e senza troppi fronzoli di un territorio difficile da raccontare. La bellezza di questo lavoro consiste nel racconto che non passa solo attraverso i testi evocativi ed intrinsecamente musicali, ma diventa immaginifico grazie agli arrangiamenti. La commistione fra testi in dialetto ed un largo uso (quasi cinematografico) dell’elettronica sta proprio nel fatto che vengono messi insieme due linguaggi apparentemente distanti, che in realtà risultano il giusto punto d’incontro fra tradizione e modernità. Obiettivo che, in “Nebros”, è stato perfettamente centrato.
Giuseppe Provenzano
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