Non capita spesso vedere un progetto discografico ispirato da un architetto invece che da un musicista, come se le diverse forme dell’espressione artistica non dovessero mai parlarsi o incrociarsi. In realtà Bruno Munari, ideatore del concetto di macchine inutili da cui prende il titolo il nuovo disco de Lastanzadigreta, non era solo un architetto, ma un intellettuale completo: scrittore, scultore, designer, grafico, artista. Le sue “Macchine Inutili” sono quelle macchine che non servono a ridurre la fatica né a produrre lavoro o ricchezza, ma che si dovrebbero guardare come si guardano le nuvole dopo essere stati sette ore in un’officina di macchine utili. Macchine quindi che non servono alla società del consumo, ma per liberarsi da essa. I cinque musicisti del collettivo torinese applicano questo concetto alla musica, paragonando le canzoni alle macchine inutili di Munari, che non producono ricchezza, ma danno sollievo alla nostra vita. Per registrare queste canzoni, il collettivo si è circondato di strumenti insoliti, oggetti di uso comune o recuperati su mercatini dell’usato, forse anche loro macchine apparentemente inutili, che qui riprendono vita e dignità, accompagnati in alcuni brani da archi e fiati dell’orchestra Filarmonica del Teatro Regio di Torino. L’opera di Munari, oltre che nel titolo del disco, è presente anche nel brano di apertura, ispirato alla sua poesia omonima “Attenzione attenzione”. Un brano che unisce il minimalismo musicale a un testo pieno di contenuti nascosti dietro a giochi di parole, che lo fanno sembrare una semplice filastrocca (è abbondante la merce sullo scaffale, che fortuna il realismo del capitale, è acquistato sul sito il regalo perfetto, è chiuso il sacchetto con dentro l’oggetto). Colpisce questa capacità di scrittura, che utilizzando poche parole descrive con precisione sensazioni e sentimenti. Capacità ancora più raffinata in “Creature selvagge, Pt. 2”, dove troviamo solo quattro frasi accompagnate dal suono sempre misterioso ed evocativo del theremin (ospite a voce e arpa la brava Cecilia Lasagno), e in “Greta e la nuvola”, dove fa il suo ingresso un piano giocattolo, accompagnato da campanello, pentolini, ciotole, carte da gioco e calici (accarezzati, percossi e rotti), una caffettiera e la catena dello sciacquone. Sono solo cinque frasi, delicate e toccanti, accompagnate da un assortimento di strumentazione improbabile da far invidia a Vinicio Capossela. Non sono da meno le due title-tracks: “Macchine inutili I”, per marimba e voce, con gli archi e i fiati della Filarmonica del Teatro Regio di Torino, dove la band rivolta la frase del celebre canto popolare in “se otto ore vi sembran poche provate anche voi a non lavorare”, e “Macchine inutili II”, dove con due sole semplici frasi rendono omaggio a Bruno Munari. I personaggi che affollano le canzoni del disco sono reali, come in “Tarzan (quello vero)”, omaggio al partigiano Dario Scaglione (nome di battaglia Tarzan), e immaginari, come i protagonisti di “Cavallini”, un intreccio di destini di quattro personaggi strani e improbabili, dai nomi particolari (Testa d’Aglio, Coda di Cavallo, Rotelle, Brufoli). C’è anche una chiara attitudine ludica, la voglia di giocare con gli oggetti e con le parole, evidente nella perfetta “Grammatica della fantasia,” ispirata all’omonima poesia di Gianni Rodari. Si sfiora il pop in “Pesce comune”, un pop raffinato con un testo splendido, e in Fiori, dove ritroviamo una strumentazione ricavata da oggetti di uso comune (pentole, bidoni, campanacci, lastre sfregate, machete) insieme a theremin, glockenspiel, chitarre, e ancora archi e fiati della Filarmonica del Regio. Sono brani che dietro una apparente semplicità celano una profonda attenzione ai problemi della vita quotidiana, raccontando di vite sospese in un’epoca di precariato, dove il vecchio mondo non muore e quello nuovo tarda ad arrivare. La stessa attenzione emerge in modo più evidente in Canzone d’amore e di contributi: disoccupazione, lavori interinali, crisi economica, un mondo dove “santa” non è la provvidenza ma la Previdenza, e dove si va alla ricerca dei contributi versati per arrivare ad assicurarsi una pensione. Il brano vede ospite alla voce Gigi Giancursi, che ritroviamo anche nella conclusiva SPID (della quale è anche autore), una scherzosa filastrocca che si fa beffe della burocrazia, ironizzando su modelli da compilare e acronimi astrusi. Con l’utilizzo di una varietà di strumenti vintage recuperati e strumentazione insolita (vibraphonette, clavietta, toy piano, marimba, didjeridoo, kalimba), e veri e propri oggetti trasformati in strumenti (bidoni, catene, caffettiere, pentole), il collettivo torinese dimostra notevole capacità tecnica, versatilità e fantasia, che sfocia nella creazione di una musica davvero difficile da definire e incasellare in un genere, e questo credo sia il complimento più bello che si possa fare a un musicista. Se con il primo disco “Creature selvagge” Lastanzadigreta aveva sorpreso, tanto da vincere la Targa Tenco come miglior opera prima del 2017, con questo "Macchine Inutili" fa centro pieno.
Giorgio Zito
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