Vedan Kolod – Gorodische (CPL Music, 2021)

Uscito originariamente nel 2014, e ora ristampato e distribuito da CPL Music, “Gorodische” è un album con grandi qualità: è uno sguardo ponderato sulle tradizioni musicali russe, uno studio delle musiche e della cultura pre-cristiane di un’area vastissima (Russia urbana e periferica, ma anche Siberia), il risultato di anni di ricerche sugli strumenti musicali popolari e sui dialetti russi non più in uso. Ed è una sintesi equilibrata dei quasi due decenni di lavoro che il trio Vedan Kolod ha svolto sulla tradizione musicale e, a partire da qui, sui nuovi linguaggi che possono svilupparsi dentro la ricerca, per essere poi immessi nella world music contemporanea. Insomma ha tutta l’aria di un disco cardine, in cui (non a caso) confluiscono tutti gli elementi che interessano il trio originario di Krasnojarsk (terza città, in ordine di grandezza, della Siberia), con una giusta miscela di stili, strumenti, brani popolari e originali. Il trio, composto dai tre polistrumentisti Tatiana Naryshinka, Valery Naryshkin e Daryana Antipova, può contare innanzitutto su una vasta conoscenza dei repertori tradizionali russi (ne hanno esplorato le varie forme e articolazioni attraverso numerosi album, nei quali sono confluiti ricerca storica e organologica), insieme a una propensione crescente per la sperimentazione. In sintesi, l’album è fondato su una scrittura world, in cui convergono elementi musicali eterogenei, ma sempre riconducibili alle aree di riferimento (“Grief”). La caratterizzazione timbrica dei repertori proposti da Vedan Kolod è innanzitutto determinata dall’uso di strumenti attentamente selezionati. Scorrendo le note dell’album si incontra una straordinaria varietà strumentale, che fa pensare a una piccola e dinamicissima orchestra, nella quale direzione ed esecuzione convergono nelle mani e nelle voci dei tre musicisti (“On our streets”). I quali, al throat singing, aggiungono cordofoni come mandolino, bouzuki, gusli, hurdy gurdy, aerofoni come kabagaida, dudka, double zhaleika, ma anche il vargan (schiacciapensieri), il war horn e diverse percussioni. Si comprende così che il paesaggio sonoro tratteggiato è molto ricercato e che il suono è l’elemento più rappresentativo del linguaggio musicale del trio. Non solo per gli esiti timbrici, che evidentemente hanno una loro importanza, soprattutto nella definizione di un discorso musicale ispirato, sia nel tempo che nello spazio, a generi molto distanti (“Wreath”). Non solo per gli esiti estetici, cioè per il valore anche simbolico che una gamma di strumenti (antichi e “locali”) può ricoprire nel percorso di definizione del profilo della band (“Shrovetide”). Ma soprattutto perché si aggiunge valore culturale (con implicazioni storiche e politiche) al suono prodotto in un determinato modo, attraverso un mezzo preciso, restituendo a tutto il processo di produzione musicale un insieme di significati che riconducono, per molti versi, alla pratica “organica” di ricerca etnografica ed etnomusicologica (“Harvest”). Anche in considerazione di questo, l’album – nel quale alcuni brani sono cantati in russo antico, oppure in dialetti desueti dell’area slavofona orientale – appare come un racconto unitario, strutturato su storie essenziali ma fortemente simboliche, costruito dentro un andamento “letterario”, con un ritmo costante che invita all’ascolto concentrato di qualcosa di simile a un resoconto storico, a una testimonianza. In questo modo, tutte le parti, testuali e musicali, si incastonano l’una nell’altra, contribuendo a una forma musicale magnetica e trascinante. Dei dieci brani in scaletta – tutti introdotti con note critiche nel booklet dell’album, disegnato (anch’esso come un racconto per immagini) dalla pittrice polacca Daria Dobronega Kowalska – alcuni possono essere citati come più rappresentativi dell’approccio del gruppo: “Witch”, “Grey Bird”, “Kupala Feast” e “Arrow”. 


Daniele Cestellini

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