Molti di noi, anzi, decisamente quasi tutti, utilizzano il mezzo social, Facebook in testa, per lavoro. Io per primo ammetto in tutta sincerità che se non mi servisse per quello, probabilmente ne fuggirei a gambe levate. Poi, chiaramente, già che ci si trova, si finisce sempre per iscriversi a gruppi di vario genere o a seguire le pagine delle riviste di settore. E, a proposito del nostro settore, negli ultimi anni è esplosa una passione quasi orgiastica per la tassonomia: c’è una costate rincorsa sfrenata all’etichettare questo o quell’artista.
Adesso, questa usanza, già di per sé abbastanza scellerata, trova il suo naturale principio in una confusione di fondo, frutto a sua volta di una ulteriore rincorsa, molto più giovane di quella di cui sopra: la rincorsa all’indie. Da quando un paio di artisti, che prima scrivevano le canzoni facendo i disegnini coi pastelli a cera, tali sono le loro vette letterarie, hanno capito che c’era un mondo inesplorato, fatto di finte prese a male (espressione i cui creatori, va detto, andrebbero presi a badilate) e di scarse capacità articolatorie, è venuta fuori una variegatissima fauna di sedicenti cantanti, spesso ignoti ed ancora più spesso ignobili.
Ed il problema è il “misunderstanding” di fondo, il non riuscire a capire che indie non è un genere, ma una discriminante discografica e che, tutt’al più, si può parlare di musica alternativa.
Buona fetta del presunto indie di oggi è pop, nel senso peggiore del termine, quello della dozzinalità sciatta, priva di ogni volontà di ricerca. E soprattutto priva di ogni immaginario poetico.
Manca completamente la cosa che dovrebbe stare alla base, e manca perché è carente la richiesta, ci si accontenta di poco, e quel poco può anche essere fatto male.
Il problema non è il pop, no. È un certo pop. Tipo: i Baustelle hanno sempre fatto pop, soprattutto negli ultimi due album. Spesso di altissima qualità, per originalità nelle dinamiche e ricerca nelle sonorità. Su quel pop, molto variegato, sono stati in grado di impiantare un intero immaginario letterario decadente. Il ritratto di un mondo al collasso con sotto una sezione d’archi ad aprire il pezzo: siamo di fronte ad un ribaltamento dei piani di lettura enorme, ad un’abilità quasi ariostesca nello smorzare- qui con la musica- la crudezza delle immagini e delle parole scelte.
Per certi versi, seppur con un tessuto musicale differente, Francesco Bianconi ha proseguito su questa scia anche col suo esordio da solista.
“Forever”, questo il titolo del suo album, è, in verità, quasi una raccolta di lieder più che un album canonico. Dieci brani senza sezione ritmica e quasi senza strumenti elettrici, in una operazione che sembra quasi fuori dal tempo, corroborata dalla solita scrittura densa di Bianconi.
Ad aprire il disco è “Il Bene”, che gioca fin da subito su toni letterari stranianti, riuscendo a far coesistere Schopenhauer con le birrette del bazar indiano ed il tragico disboscamento della Russia. A far da sfondo un pianoforte a sorreggere il pezzo, contrappuntato da una sezione di archi e da una spinetta. “L’Abisso”, lo dico fin da ora, per me è il vero capolavoro dell’album. Un arpeggio di pianoforte gelido come l’inverno tremendo col quale comincia il pezzo sostiene il pezzo, mentre gli inserimenti della sezione di archi sono come foglie appassite. In mezzo al brano, aperto sul finale dagli ostinati ritmici degli archi, un interessante intermezzo con spruzzate di synth. Il testo ha una scrittura clamorosa, introspettiva ed universale allo stesso tempo, con un perfetto mescolamento dei piani letterari, dai richiami filosofici al Leviatano ai tanti abissi interiori di ognuno di noi. “Andante” vede la prima partecipazione dell’album, vale a dire Rufus Wainwright. È un episodio elegantissimo, sorretto sempre dal piano e dagli archi, che qui intervengono con un delicato tappeto, con le due voci che si incontrano nel ritornello, mescolandosi alla perfezione. Il flauto ed il sax di Enrico Gabrielli aprono e colorano la coda strumentale che chiude il brano. Altro featuring è quello di Kazu Makino dei Blonde Readhead su “Go!”, unico motivo con qualche traccia tangibile di strumenti elettrici. A scandire il brano sono sempre le note di un pianoforte, mentre agli archi tocca aggiungere le note di colore. Una coda elettrica, giocata su un arpeggio di chitarra, conclude il pezzo. Anche in questo caso le due vocalità si sposano molto bene, diventando quasi complementari, in un brano etereo e leggero. “Fàika LlìlWnhar” è l’altro capolavoro dell’opera Cantato magistralmente insieme ad Hindi Zahra, trasuda malinconia da tutti i pori, di un bello quasi abbagliante. Atmosfere arabe, come è arabo il testo, colorano il pezzo, intrecciandosi a meraviglia con una sezione di archi struggente ed una sezione di fiati che è come il vento caldo del deserto. Su “Zuma beach” Bianconi torna da solo e torna a cantare in italiano. Una composizione aperta e libera, col mare di sottofondo all’inizio che è quasi programmatico. Un crescendo che parte dal pianoforte, finendo per abbracciare archi e fiati, costituisce la parte strumentale del brano, che letterariamente è contraddistinto da un incrocio fra il piano personale e quello sociale. “E vorrei disintegrarmi nella luce insieme a te. Perché quel che è stato è stato, se mancava, adesso c’è.” L’ultima collaborazione dell’album è su “The strenght”, e vede la partecipazione di Eleanor Friedberger, già The Fiery Furnaces. Un delicato arpeggio di piano e dei sottili contrappunti di violino costituiscono la dinamica del brano, che ha il suo valore aggiunto proprio nel perfetto incastro fra le due voci. Altro gran bel pezzo è “Certi uomini”, aperto dal pianoforte, cui la sezione d’archi fa prima da tappeto e poi da contrappunto, in un crescendo vorticoso ed altissimo. Un testo molto potente, levigato dalla voce profonda di Bianconi, che mette insieme immanenza e trascendenza nel continuo gioco al rimescolamento. “C’è una pulsione, un atomo opaco che muove il cosmo, e non è detto che sia morale. Cancella il sangue e ogni segno di distinzione fra la procreazione e la Guerra Mondiale.” “Assassinio dilettante” è l’ultimo motivo cantato dell’album, ed è retto da un arpeggio di piano, sostenuto a sua volta da un tappeto di violoncello. I contrappunti della viola colorano il pezzo, mentre gli inserimenti della spinetta sono dei tocchi di classe, in un tema dall’andatura già molto elegante e dai toni barocchi. A chiudere l’album è la title track, meraviglioso e malinconico strumentale, nel quale gli archi recitano la parte del leone, insieme agli splendidi inserimenti del flauto di Enrico Gabrielli.
Questo esordio solista di Bianconi è, come già detto, un disco davvero staccato dallo spirito musicale contemporaneo. Un’opera certamente coraggiosa, ma che incontrerà un pubblico quantomeno incuriosito da questa svolta/ non svolta: è vero che sono scomparsi i baustelliani synth a cascata, ma l’impostazione musicale rimane quella. Bianconi, molto bravo anche nell’inserire tutti i suoi riferimenti, musicali e non, si conferma penna ispirata, oltre che interprete raffinato ed elegante. Un album da ascoltare, un lavoro che richiede una certa attenzione, ma ne vale la pena.
Giuseppe Provenzano
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