Un debutto sgargiante per l’ensemble internazionale Ayom che realizza un fantastico album omonimo dove le correnti dell’Atlantico si mescolano con il Mediterraneo. La band – i cui membri provengono da Brasile, Angola, Italia e Grecia – aspira a costruire un sound multiculturale di scambio libero e spontaneo, dove culture estetiche possono informarsi e confrontarsi a creare un paesaggio sonoro che le valorizzi e contamini simultaneamente. La musica che ne risulta è edificante e ottimista, con un’attitudine che interseca la leggerezza del ballo ed il calore poetico del canto. La band è capitanata dalla cantante e percussionista Jabu Morales, dotata di una straordinaria proprietà vocale che trascende la capacità tecnica e brilla per comunicazione affettiva. Nata in Brasile, si sposta a Barcellona nel 2011 dove tiene lezioni di percussioni per donne e approfondisce gli studi sui ritmi afrobrasiliani e del Candombolé, una religione afrobrasiliana nata dal sincretismo tra cristianesimo e religioni dell’Africa Occidentale. Il suo incontro con Alberto Becucci, fisarmonicista fiorentino, e Timoteo Grignani, percussionista romano, ha gettato le fondamenta per il progetto nel 2018. Una formazione dunque giovanissima che già possiede un’identità stilistica ben delineata. A completare il sestetto abbiamo Walter Martins alle percussioni, Ricardo Quinteira alla chitarra e Francesco Valente al basso. Con ben tre membri esperti dell’arte percussiva il ritmo non può che essere il nucleo trainante del disco. Intrecci spesso poliritmici e sempre curati nel dettaglio creano infatti la tessitura poi dipinta dagli strumenti melodici e dalla voce.
La varietà timbrica interna alla band, che gioca di equilibri tra i vari strumenti melodici e ama variare quando ti tratta di pelli, è eccellente e si rimodella idiosincraticamente per ogni brano. “Es̩u” è il perfetto esempio di quanto appena descritto. La traccia d’apertura è introdotta dall’incastro poliritmico delle percussioni su cui si sovrappone la voce. A sviluppare la scena iniziale non sono gli strumenti melodici, bensì il basso e addizionali voci e percussioni che rendendo la crescita della canzone graduale, intima e riflessiva. Quando la fisarmonica entra si sente, si sente eccome! Così come spicca la chitarra nello special: l’arrivo dei due strumenti è un’ondata di freschezza e colore rinforzata proprio dalla loro assenza nella prima porzione del brano. La competenza tecnica di un musicista non va necessariamente di pari passo con il suo gusto per gli arrangiamenti, ma nel caso di Ayom il sestetto dimostra una grande sensibilità organizzativa oltre alla perizia tecnica. Troviamo quindi momenti di respiro, esplorazione solistica e costruzione dinamica in brani ballerini come “Valsa da Estações”, “Baile das Catitas” o “Egum”, tre pezzi dal profilo emotivo e stilistico completamente diverso ma con una simile intenzione ritmica.
Altrove spicca invece la voce in canzoni più lente dove, tuttavia, l’intreccio strumentale e percussivo continua a non accontentarsi di formule statiche. Incredibile l’interpretazione in “Me Deixe Ser” e “Balzaquiana” in cui la voce di Jabu Morales mostra le sue qualità più ammalianti. La punta di diamante del disco è forse “Ayom Manifesto”, un titolo che parla da sé in quanto rappresenta il brano che più incapsula l’intenzione della band, che mescola sonorità mediterranee e ritmi latini in un brano di chiaroscuri festosi.
Il debutto di Ayom è un album fluido e polimorfo ma riesce a mantenere un’impronta coerente in tutti i brani grazie ad un perfetto equilibrio di elementi estetici, stilistici ed emotivi. L’ensemble gioca con l’immaginazione, non solo la propria come ogni compositore e cantautore, ma con quella dell’ascoltatore, catapultato in una moltitudine di paesaggi sinestetici, situazioni urbane e formazioni culturali. Questo viaggio geografico, codificato a più livelli dall’utilizzo di strumenti a scelte ritmico-melodiche, è rinforzato da una pluralità linguistica scelta a rappresentare un progetto che scavalca ogni confine culturale. Dal portoghese brasiliano, allo spagnolo passando per yoruba, kimbundu e persino il francese creolo, la marcata impronta globale degli strumenti trova forti echi nelle lingue che plasmano i testi. Ciò che più stupisce è la facilità d’ascolto di un disco così polimorfo, probabilmente derivata da una sapiente selezione e combinazione di elementi sì culturalmente differenti, ma esteticamente in qualche modo vicini. Così Ayom dipinge un paesaggio che appartiene a tanti ma senza banalizzarsi o rinunciare a radici e significati ma utilizzando tonalità che spiccano all’occhio per la loro espressività emotiva.
Edoardo Marcarini