Artisti Vari – Urca. Cantautrici e Cantautori (Polosud Records, 2020)

Nel panorama musicale contemporaneo in che modo lo collochereste? Quale carattere emerge e quali sono gli elementi che connettono i differenti autori?

Ugo Gangheri -
 Quello che crea una connessione tra i partecipanti al disco è senz’altro ciò che ognuno ha costruito con la propria musica negli anni, molti ad esempio sono stati finalisti al Premio Recanati anche più di una volta, altri hanno girato l’Italia e l’Europa facendo concerti su palchi importanti, altri ancora hanno condiviso penne, fogli bianchi ed accordi con musicisti di notevole spessore, anche internazionali, altri invece hanno venduto dischi entrando nelle classifiche europee. Poi c’è chi è si è messo in luce al Festival Gaber e chi ha vinto numerosi premi della critica nei festival miratamente di musica d’autore, chi è andato nelle trasmissioni televisive a cantare e chi invece non ci è mai voluto andare, chi ha rappresentato con originalità e vigore la new wave o il neapolitan power … ognuno con le proprie canzoni… questo è il vero  punto di connessione, ognuno di noi ha sempre scritto canzoni con la sensibilità, il gusto e la conoscenza che gli appartiene, siamo dodici musicisti diversi che scrivono canzoni da sempre alla luce di quel sole che ogni mattina si leva alle spalle del Vesuvio ad illuminare le gioie ed i dolori come le infinite altre contraddizione della nostra città e del nostro tempo, nel mentre noi ne  respiriamo l’essenza. “Urca” è un disco che per forza di cose va ascoltato con attenzione (mi permetto personalmente di usare un termine forse troppo regale e presuntuoso ma dal mio punto di vista è così… centellinarlo) perché ci sono parole che sanno dire, che si offrono come germogli di primavera, parole che come qualcuno ha detto sono “importanti”, di riflessione e che nascono dal profondo, dove l’anima custodisce i segreti e raggira le nefandezze del quotidiano. E poi ci sono le musiche, che ognuno di noi rappresenta per quello che è la propria cultura. E non mi riferisco agli studi sul pentagramma, ma anche alla ricerca che ognuno ha fatto e fa tutt’ora. “URCA” è un disco d’autore, quindi per sua vocazione andrebbe collocato in questa direzione, ma probabilmente non sarà facile perché l’indotto, il genere musicale che ne rappresenta il termine, parrebbe non essere più al passo, visto che oggi la musica che si ascolta di più è quella liquida sulle piattaforme o quella che si vede su Youtube e similari, e la velocità che non ti fa soffermare unita ahimè
alla leggerezza con la quale si presta attenzione ad un testo, potrebbe non aiutarci ma… ma siamo ottimisti nel guardare le generazioni che stanno crescendo, in fondo una canzone mentre la si scrive appartiene di sicuro a qualcuno da qualche parte nel mondo (lo sosteneva il mio amico Branduardi).
Massimo Mollo - Chiaramente nel mondo del cantautorato, anche se oggi non si può definirlo come anni fa, oggi anche il rapper è un cantautore, come lo erano i cantastorie secoli fa… è sicuramente un lavoro diverso da qualunque altro, perchè nasce e si propone in maniera diversa, con l’illusione di volere dire “oggi gli artisti se vogliono salvarsi, devono lavorare insieme”, abbiamo fatto tutto insieme, collaborato nei brani degli altri, discusso, consigliato, litigato, suonato insieme nei pochi concerti finora effettuati… è questo che vorremmo comunicare e magari continuare...

Si tratta di un programma di canzoni di cantautori, come recita anche il sottotitolo. Napoli e la sua cultura musicale possono essere visti come un elemento che ha ispirato l'album? Se sì in quali modi.
Ugo Gangheri - Mi riesce impossibile non essere banale e scontato nel risponderti: Napoli, che piaccia o no, è da sempre un forno dove lievita del buon pane profumato, gli passi accanto a qualsiasi ora del giorno e della notte e ne avverti la bontà, la leggerezza, la fragranza che ti dispensa allegria e ti predispone alla curiosità di assaggiare tutto quello che produce… un disincanto che incanta… Napoli siamo anche noi che ne viviamo la sua unicità, e se è vero come si dice, “si è il prodotto di ciò che si mangia”. La cultura musicale di questa città è uno dei cibi di cui ci si nutre, e quando ci sediamo a tavola con le nostre chitarre, va da sé che si sovrappongono le due anime, quella della città e quella di un suo musicista, quindi questa dinamica produce immancabilmente una “influenza” che come nel caso di questo disco si avverte fortemente, come pure nelle produzioni che singolarmente ognuno di noi produce. Ma attenzione, nessuno di noi vive di retorica o di cartoline sul golfo e né si vive di facili annoianti luoghi comuni (alcuni peraltro desueti), Napoli ispira è vero, essere napoletano è un privilegio è vero, la napoletanità è associata al buonumore, è vero, ma non significa che queste ed altre verità rappresentano tutto di tutti, perché l’unica vera differenza che fa la differenza se nasci e vivi a Napoli o a Milano o a Palermo o a Trieste, è la cultura, 
quella che ti porti appresso in un cesto invisibile sulle spalle e che riempi nel corso della tua vita con un libro, un film, un viaggio, un senso civico, uno di accoglienza, uno di appartenenza, uno critico, un cesto dove fiorisce il porsi nei confronti del prossimo, del mondo e di sé stessi… un meraviglioso peso fatto di altro e altro ancora che possa rendere migliore un uomo o una donna.
Massimo Mollo - Siamo nati a Napoli, comunque del Sud, questo è DNA, ragioniamo e parliamo spesso in dialetto, ma siamo cittadini del mondo, la musica ci ha portato dappertutto, quando parliamo di Napoli, parliamo di un mondo che è dentro, ma anche fuori di noi, è dovunque… è anche il “faro della Palascia” che cita Michele Contegno nel suo brano, il punto più ad oriente dell’Italia… E infatti molti brani sono in italiano, perché inevitabilmente ragioniamo da italiani di Napoli a volte anche confrontandoci con una cultura ed una arte secolari tra le più importanti e vive al mondo, talmente enormi che rischiano di schiacciarti. Metà dei brani sono in dialetto, metà in italiano, questo significa poco… La musica ha una armonia non propriamente ufficiale, ma condivisa, che si chiama sesta napoletana, deriva dalla melodia popolare, ma la trovi dovunque. Noi la usiamo spesso pur scrivendo in italiano, perché è proprio come quando vivi da anni in Inghilterra, ma senza saperlo all’improvviso ti fai il Tuo caffè… è semplicemente, ad esempio, un la minore seguito da un si bemolle maggiore… chest’è…

La scaletta è ricca di interpretazioni originali e diverse tra loro. È forse questo uno degli elementi che si è voluto mantenere in primo piano: la varietà, al di là e al di sopra delle interpretazioni più direttamente legate alle musiche popolari?
Ugo Gangheri - Quando abbiamo deciso di costruire questo album ci si è detti da subito che ognuno faceva quello che riteneva più bello, perché la parola chiave di quell’inizio è stato ed è restato dare lustro a questo progetto. Tant’è che, per avere più forza, alcune canzoni ad esempio sono state scritte a quattro mani, dove le “seconde due mani”, cosiddette, in una canzone sono quelle di un marito (uno dei music-maker più importanti della nostra città), in un’altra sono le mani di uno di noi e in un’altra ancora appaiono le mani di una fraterna lunghissima amicizia, nonché spalla mai abbandonata.
Non abbiamo mai pensato di metterci in discussione codificandoci in qualche modo, né cercare di sovrapporci stilisticamente, il verbo dettato e rispettato tutti è stato cercare semplicemente di Essere Se Stessi. Non ci è servita  una linea guida in termini di scrittura, anzi, abbiamo capito da subito che la varietà di suoni, di pensieri scritti e di voci sarebbe stata una forza dalla quale più che sottrarsi si doveva sottolineare così come ne racconto la diversità.
Massimo Mollo - Sicuramente sì, perché la varietà è stata una conseguenza della decisione iniziale, non era tanto il tema che importava, era la nostra diversità di italiani di Napoli. Ogni canzone è un tema… la voglia di riprendersi la vita di Andrea Campese, la nostalgia di una Napoli aristocratica nel senso più bello del termine di Gabriella Pascale, l’esplosione di una primavera che cancelli le disgrazie di Giovanna Panza, la dignità in prima fila delle donne di Gabriella Rinaldi, l’importantissima storia politica della mia “Pezza rossa”, una città che grida di Ciro Mattei, che non è necessariamente Napoli… una ninna nanna che ti dia un mondo felice di Ugo Gangheri, il ritrovarsi tra persone comuni nell’amore e in sé stessi di Antonella Monetti, l’amore sconfinato per la propria terra di Miriam Lattanzio e Marco Francini, le cose essenziali ed inutili di Antonio Del Gaudio. Ci siamo detti: la nostra non è una semplice compilation… dobbiamo riscrivere perché ci siamo, perché c’è bisogno della nostra storia, delle nostre idee e, sì, anche della nostra età. Una citazione particolare per Michele Contegno, che ci ha lasciato troppo presto a 36 anni, ma che riteniamo una delle voci più importanti del cantautorato italiano, il vero erede, se si può dire, di De Andrè, colto, popolare, poeta, visionario e realista, per me un vero fenomeno.

In alcuni casi i brani possono comunque essere ricondotti a Napoli, ad esempio attraverso l'uso del dialetto. In presenza di un codice così caratterizzante non si può fare a meno di ricorrere all'area di produzione e alla sua storia musicale, che questo album arricchisce ulteriormente di interpretazioni nuove. 
Insomma ogni brano può aggiungere nuovi tasselli, attraverso uno sguardo libero, alla varietà e alla ricchezza della musica napoletana? E in che modo caratterizza il corso di un cantautorato contemporaneo?
Ugo Gangheri - L’uso dell’idioma napoletano in alcune canzoni non è stato mai messo in discussione, così come pure chi ha cantato in italiano. Di certo per alcuni di noi raccontare e raccontarsi in dialetto è una “abitudine” che viene da lontano e, se mi chiedi il motivo, potrei risponderti dicendo che per qualcuno è una possibilità di suono che produce e che ben dispone al canto, per un altro è esprimere una appartenenza, per un altro ancora è dichiararsi con amore, cittadino di una città, per altri è la cultura millenaria che rappresenta e che permette di caratterizzare una canzone con quel codice di cui sopra, dichiarandosi con pulizia ed eleganza assieme ad un gusto tutto suo, interprete in un mondo musicale accogliente come il nostro partenopeo. Io credo che se le parole di una canzone donano piacere nella leggerezza o sono motivo di riflessione o ti sussurrano le verità che non si vogliono ascoltare piuttosto che raccontare una storia dulcamara, se un ascoltatore ha fermato il suo tempo per sentirle muoversi attraverso un canto, allora se è napoletana la scrittura si può essere solo ben felici. “URCA” è un disco che vuole anche essere riferimento e studio, ma pure carburante ideologico per le generazioni cantautorali che nascono e vivono di un sogno che noi conosciamo bene, e non solo, ma forse il prezioso di questo disco è il coraggio di un “credo” che porta con sé quello che può aiutare a lenire le infinite amarezze che attendono chi fa della musica d’autore la sua scelta di vita. Queste canzoni ci raccontano oggi quello che siamo, e quello che siamo non è altro che un riflesso di ciò che accade attorno a noi, dove l’attorno è un figlio lontano, un figlio mai avuto o che non c’è più, dove l’attorno è composto dal desiderio di sentirsi vivi e critici verso le anomalie di una vita politica che sempre meno ci rappresenta, dove l’attorno è uno spazio fatto di note e appunti , di progetti ed idee pronte per essere portate alla luce, dove l’attorno è l’amore infinito per ciò che si ama… e poi ci sono tutti i nostri errori messi in fila in maniera ordinata, quegli errori che mai si dovrebbero fare o che viceversa andavano fatti molto prima. 
E concludo dicendoti che nulla è più contemporaneo di un disco che porta i segni delle di una vita di uomini e donne, maturi e con la loro storia alle spalle, che hanno visto e fatto tanto fino ad oggi che si convive con una attualità che porta il nome di speranza.
Massimo Mollo - Come vedi è difficile separarsi dalla napoletanità, un concetto che significa tutto e niente, mi ripeterei quasi in tutto, ma aggiungo che la nostra storia è stata proprio quella di avere attraversato, come Al in “2001 Odissea nello spazio”, anni di sconvolgimenti culturali, avere vissuto, visto, ascoltato, fatto e disfatto cose che voi umani… siamo quelli dell’autostop, delle rivolte violente giovanili, del femminismo vero, della scoperta del mondo dal vivo e non su internet, che giravamo l’Europa suonando per strada, quelli che andavano a sentire Pinotto Daniele quando suonava nei negozi di musica provando tutte le chitarre, perchè non aveva i soldi per comprarsele, che hanno vissuto, da dentro, l’epoca di Pinotto, della NCCP, dei Zezi, di Roberto Murolo, della riscoperta delle nostre tradizioni popolari, Viviani, De Filippo, la musica contadina, le tradizione del mondo… ma anche dei grandissimi musicisti e gruppi di tutto il mondo, che a Napoli ci venivano, ma soprattutto di una marea, direi quasi un tappeto di talenti conosciuti e meno che a Napoli, in tutte le arti, ogni giorno tessevano, tra mille difficoltà, le tele di una grandissima arte… il nostro codice, come tu dici, ci ha fatto attraversare tutto questo, riempendoci, confondendoci, maturandoci. Ognuno di noi viene da esperienze diverse, dalla musica popolare, dal rock, dalla classica, dal teatro. Riuscire a mettere insieme questo potrebbe essere il seguito della nostra storia. In realtà avevamo già iniziato a preparare uno spettacolo teatrale-musicale, che non abbiamo potuto rappresentare a causa del Covid. Nella preparazione di quello spettacolo abbiamo lavorato come un vero gruppo, suonando insieme, arrangiando insieme, cantando insieme… Ettore Sciarra, chitarrista di Gabriella Pascale, durante le prove disse “è da trent’anni che non vedo una cosa del genere”. 
Lo spettacolo è pronto e lì c’è il nostro cd, ma in teatro… per aggiungere nuovi tasselli, come suggerisci, c’è bisogno di tornare a lavorare insieme, suonare insieme, aprirsi ai nuovi e giovani compositori, che siano rapper o classici, ma mantenendo la nostra formazione, imparando e insegnando. Per questo però il discorso si fa tosto, è la cultura che cambia la società o viceversa ?

Per introdurre alcuni dei contenuti di “Urca” potete descrivere i vostri contributi presenti nell'album? 
Ugo Gangheri - La mia canzone “Adduormmame”, come ti dicevo, è stata scritta appositamente per questo disco. Una canzone un po’ politicamente scorretta (giusto per usare una terminologia attuale), ma solo perché credo che i potenti a questo mondo la fanno da padrone da troppo, da quel troppo che si avvicina al sempre, e la miseria fisica ed intellettuale che ha generato non si può vedere, non si può accettare. E poi c’è da dire che mi capita spesso di scrivere delle ingiustizie terrene, mi piace sottolineare attraverso una canzone la richiesta di un mondo migliore e, giusto per non lasciare che le parole si disperdono assieme al vento, ti dico che, personalmente, credo nelle rivoluzioni culturali che prima o poi dovranno rivivere, credo che ogni umano ha diritto ai diritti primari e credo che solo e soltanto cambiando ognuno di noi, nel nostro piccolo, nel nostro quotidiano, gli atteggiamenti che fanno male ad altri possiamo sperare di vedere quel mondo migliore… forse io non ci sarò più come tanti milioni di persone che si avvicendano su questa terra, ma il pianeta da solo gira e qui pare che il mondo se lo sia dimenticato, mentre tutto diventa sempre di più teatro di rappresentazioni esclusivamente per i potenti. Ritornando ad “Adduormmame”, canto il desiderio vivido di addormentarmi e risvegliarmi su di una terra migliore. Concludo segnalando il mio affetto infinito verso chi mi è stato affianco donandomi la sua arte, ovvero Carletto Di Gennaro alla ritmica, Vittorio Pepe al basso, Ernesto Nobili alla chitarre elettrica e soprattutto il paziente ed amorevole Michele Signore, con il quale abbiamo arrangiato la canzone.
Massimo Mollo - I nostri brani rispecchiano la nostra vita e la mia vita è stata in gran parte quella, oltre che artista per lavoro fino a 30 anni, di un lavoratore della Sanità e di un militante politico, 
prima nel Partito Comunista, poi nella sinistra extra-parlamentare, candidato  per due volte alle elezioni amministrative con Rifondazione Comunista. Quello che scrivo quindi non è “Bandiera Rossa”, ma esprime la mia visione della vita, in tutte le sue sfaccettature, per cui questo brano è la vita di un ragazzo, uomo, anziano, che ha vissuto un’epoca irripetibile, napoletana, italiana, rivoluzionaria, ribelle, vincente e sconfitta, ma mai arresa… l’idea nasce una notte sulla spiaggia di Salerno, dove con Izet Saraijlic - di cui mi onoro di essere stato amico, considerato ancora oggi il più grande poeta jugoslavo (sulla scrivania di Che Guevara c’erano le sue poesie) - che io in quel periodo accompagnavo con la chitarra mentre declamava le sue opere nelle rassegne della Casa della poesia di Baronissi, dopo esserci scolata una bottiglia e mezza di ottima grappa, decidemmo di formare il governo mondiale comunista, di cui lui era presidente ed io ministro della cultura… poi ripiegammo sull’amministrazione di Salerno, ma questo conta poco… Quando Izet mi scrisse ringraziandomi di averlo fatto entrare nella mia chitarra, mi resi conto all’improvviso della mia storia, di quella vita che disperatamente ed entusiasticamente avevo vissuto… la sorpresa vera è arrivata quando mia figlia Martina, pianista e arrangiatrice sopraffina, ha deciso di arrangiarla. E la cosa incredibile è che è riuscita a rendere attraverso la musica raffinata esattamente le stesse sensazione ed emozioni del suo vecchio padre: non era una cosa semplice e scontata. Al brano hanno contribuito Carlos Moratalla al basso, Carlo Di Gennaro alle percussioni, Michele Signore ai violini, Mimmo Di Domenico alle percussioni, Martina Mollo al pianoforte e arrangiamento, io alla chitarra classica e voce.

Il cantautorato in Italia è sempre in movimento, pur attraversando flessioni e rinascite, confrontandosi con sperimentazione e ispirandosi a temi sempre attuali. Ascoltando l'album, profondo e articolatissimo nei contenuti e nelle narrazioni musicali, sembra di riconoscere anche una presa di posizione, una volontà di rimarcare e non abbandonare un patrimonio espressivo che caratterizza la nostra sensibilità e il nostro modo di guardare il mondo. Può essere questo uno dei modi in cui interpretare l'insieme dei brani e l'unione dei cantautori presenti in "Urca"?
Ugo Gangheri -
 Assolutamente sì! Da qualche parte anni fa lessi una definizione a mio avviso appropriata del cantautore, uno che per vocazione porta con sé il seme della ribellione e spinto dalla sua capacità creatività produce un effetto a volte generazionale a volte individuale, ma pur sempre un effetto. Un cantautore è un comunicatore che si assume la responsabilità di ciò che pensa, cantandone la sostanza, donando così il suo punto di vista su di uno e più argomenti ad una platea visibile ed invisibile, ottenendo come risultato quello di aver creato un patrimonio fatto di emozioni e di verità, facendo crescere nell’ascoltatore che ne rapisce la sostanza una certa curiosità, che lo allinea con il suo mondo interiore. “Urca” è un disco di cantautori che veramente lo sono stati, lo sono e lo saranno, e se un tempo le canzoni avevano la forza di portare intere masse a guardare la propria realtà con occhi diversi, oggi  non credo ci sia differenza in questo dare-avere: forse sono soltanto cambiati i termini numerici. Se ci siamo uniti in questo progetto è anche per sottolineare la questione dell’importanza delle parole che compongono concetti e visioni in musica, le nostre sensibilità così diverse fungono da ascensore comunicando alla nostra creatività ognuno la sua, il necessario per produrre la canzone che avvertiamo nell’aria quando questa quasi ci chiama per essere scritta e, con tutto il beneficio dell’oggettività, di certo a qualcuno tutto questo non importa, ma a qualcun altro forse, e per questa vocazione si accresce quel patrimonio espressivo che ci fa guardare il mondo di modo che altri lo possano vedere attraverso le nostre canzoni. Un cantautore non rinuncerebbe mai alla parola.
Massimo Mollo - Il cantautore per sua definizione pensa quasi sempre prima alle parole, non sempre, ma in percentuale maggiore… siamo persone che osservano, guardano il mondo sinceramente e non possono non vedere la realtà, parlandone in maniere diverse, intimiste, politiche, divertenti, ma sempre, se si è sinceri, con una visione che è automaticamente politica, nel senso più alto della parola. Victor Yara, il grande artista e rivoluzionario cileno,vittima del fascismo di Pinochet, diceva che “l’artista, se sincero, è un grande rivoluzionario”, perché cerca e scava sempre nella verità. Questo è sicuramente quello che ci accomuna. Se scriviamo così è perché cerchiamo di vivere coerentemente con le nostre idee e passioni,
altrimenti saremmo falsi e le nostre canzoni non conterebbero nulla, non trasmetterebbero emozioni. Dentro i brani c’è la nostra vita e pezzi di esperienze fatte insieme. Con Andrea, Miriam, Marco in passato abbiamo partecipato a battaglie civili per la città e sempre siamo disponibili per una solidarietà, una lotta, un sostegno a iniziative politiche e sociali. Una parte della comitiva fa parte del mondo della scuola, sta vivendo in maniera intensa le difficoltà dei ragazzi in questo momento: naturale che tutto questo bagaglio umano e passionale si ritrovi nelle loro composizioni. Io personalmente ho avuto tante esperienze lavorative anche dure, come potrei non esserne pieno?

Per concludere, due domande in una: potete soffermarvi sul titolo dell’album e spiegarne il significato? Come e dove è stato registrato e quale il percorso di coordinamento dell'intero progetto?
Ugo Gangheri - Il titolo “Urca” viene fuori da un delirio vero e proprio di proposte fatte ogni giorno per mesi da undici personalità molto, come dire… piene di personalità (risatina), fino ad un vero e proprio sfinimento che ci fece tirare dal cilindro la parola “urca”… “urca” come un nonsense… “urca” significa quello che ognuno vuole che significhi, che detta così sembrerebbe un gesto di presunzione, ma non lo è affatto, lo abbiamo scelto proprio per giocarci su! Un acronimo di… unione? resistenti? cantautori?
Massimo Mollo - Domanda micidiale… ci siamo “appicicati” per mesi sul titolo della pagina e del progetto, alla fine è stato naturale chiamare così anche il dd… il significato abbiamo deciso di affidarlo agli ascoltatori. “Urca” è una esclamazione di sorpresa per niente meridionale, questo la dice tutta anche sulla nostra diversa “napoletanita” e potrebbe significare… che so… Unione Rivoluzionaria, Cantautori Autonomi, oppure Unità Rincoglioniti Cantanti Anziani, oppure quello che si vuole, accettiamo consigli ah ah!! Il cd è stato registrato alla Kammermuzak di Carlo Di Gennaro, anche percussionista in diversi brani. Michele Signore della NCCP è stato produttore artistico e violinista in diversi brani, Max Carola ha prodotto i mastering. Il lavoro è iniziato come autofinanziamento per le prime spese di registrazione, poi Ninni Pascale della PoloSud ha preso a cuore il nostro progetto e ha stampato il cd. Come dicevo prima, molte collaborazioni tra di noi e da tanti musicisti amici: dobbiamo dire che nonostante le difficoltà iniziali, grazie anche al lavoro che tutti stiamo facendo di promozione e propaganda, il cd sta andando oltre le nostre previsioni. Abbiamo in futuro molte interviste e programmi radio che ci attendono e la produzione dei video dei brani. Come si dice in Svezia “dicett’o pappece vicin’a noce damm’o tiempo ca te spertoso” (disse la cimice alla noce, se mi dai tempo ti foro). Inoltre, sempre con il  contributo di Ciro Mattei, Antonio Del Gaudio e Ninni Pascale, il cd è in vendita on line sul sito IBS e acquistabile con la carta docenti, oltre che su Spotify, Amazon e su www.polosud.com. Ringraziamo Blogfoolk, rivista indispensabile per chi segue la musica come vera comunicazione e poesia.



Artisti Vari – Urca. Cantautrici e Cantautori (Polosud Records, 2020)
Sono tanti gli aspetti che emergono da “Urca. Cantautrici e cantautori”, album che raccoglie dodici brani di altrettanti artisti napoletani: Andreasbanda, Gabriella Pascale, Michele Contegno, Giovanni Panza, Gabriella Rinaldi, Massimo Mollo, Peppesmith, Ugo Gangheri, Antonella Monetti, Antonio Del Gaudio, Myriam Lattanzio, Marco Francini. Gli aspetti sono tanti perché è evidente che gli artisti coinvolti hanno tanto da dire. Anzi, hanno bisogno di trattare certe questioni in modi che non si ritrovano spesso nelle produzioni musicali contemporanee (“Chesta e’ a terra mia/ ca ce so nato/ e mo la vogghiu salvari”). Questo vale probabilmente più di ogni altra questione in riferimento al disco e, in generale, al progetto che lo ha ispirato: canzone, poesia, storia politica, prospettiva politica, amore e amaro, incanto e disincanto (“Passano passano l’onne do mare/ ‘a rena è cucente pure si nun è stagione/ so venuto ‘a cercà ‘e parole mancante/ me ne servono assai assai pè capì qual è ‘a via”), forza caparbia e sguardo all’orizzonte, ma anche alle vite di Napoli, ai suoi suoni (“Tu staje sempe cca cu mme dint’e pensiere/ int’e silenze d’oggi e speranze d’ajere”), alla sua estetica contraddittoria. Non è una questione di generi: la musica è un tutt’uno con le parole, con le immagini (“Sono uno straccio che non puoi buttare/ che lo ritrovi quando vuoi partire”). Ogni elemento che compone la canzone è incastrato nell’insieme, al punto che nulla può intaccarne l’organicità, l’originalità. Non è una questione di generi: il discorso è uno ma dentro narrative molteplici, che sembra si moltiplichino man mano che si riascoltano, che si guardano come in dodici specchi, per riconoscersi vicendevolmente e cooperare alla trasmissione di un messaggio unico. Ecco che la parola e la melodia si spingono al livello del segno, che vuole essere interpretato, guardato e riconosciuto come significante, come un’impronta calcata dodici volte nel percorso della poesia del vero (“Mi sveglio all’alba per guardare il mare”), dell’incanto del vivido (“Al sud del sud dei santi/ a sud del sud dei canti/ il pomeriggio incendia/ la sagoma pietrosa del fico d’india”), del peso elegante di un solco netto e puro (“Uno si sveglia e sega le catene/ non gli viene bene, è libero a metà”). Parlare di “Urca” con Massimo Mollo e Ugo Gangheri è valso come il piacere di ascoltare i brani dell’album, perché lo hanno tratteggiato come un mondo intero, straordinariamente profondo. Avremmo voluto parlarne con tutti, ovviamente: l’album è innanzitutto questo (dall’intervista emerge chiaramente), un lavoro d’insieme. E tutti insieme hanno concorso a modellarne il profilo, assumendo via via i ruoli necessari a un lavoro di questo tipo, che solo così si può fare. Non si è certamente trattato di scegliere in quale modo polarizzare gli interventi: il concetto di insieme (piacevolmente politico e volgarmente anacronistico) ha attraversato molti aspetti della costruzione, del processo. E questa dimensione collaborativa, piena e organica anche sul piano artistico, non poteva non definire lo stesso carattere di “Urca” e il suo valore musicale. Come possiamo immaginare, al di là delle idee che gremiscono l’immaginazione degli artisti – e che non sempre riescono a seguire un percorso congruente con la loro realizzazione – ciò che ha spinto alla creazione dell’album è una passione irriducibile per la parola, il racconto, la storia (“Ti sei mai chiesto dove/ hai mai detto perché/ sapresti indicarmi la tua strada dentro te”). Insieme alla voglia (che è anche la necessità) di dire la propria, direttamente o no, sulle questioni della vita, puntando forte i piedi sul valore del messaggio, e implicitamente sulla prospettiva da cui si guardano le cose e sul modo di raccontarle (“Corporea collettiva presencia/ senti il mancare di ogni resistencia”). Quelle parole così dense sono esse stesse un riflesso dell’album: ci dicono, nella loro corposità e abbondanza, che la vita vissuta va narrata e che, se si ha la fortuna di essere un artista che canta e suona, va ostinatamente cantata.


Daniele Cestellini

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