Valeria Cimò – I Cantori di Arborea (Radici Music Records, 2020)

Alcuni di quelli che fanno questo lavoro sono (siamo, si parva licet mi ci metto anche io, che mal sopporto la falsa modestia) se non degli onesti scrittori, quantomeno gente tranquillamente in grado di tirar fuori dei bei periodi, se non addirittura ariosi e ciceroniani, quantomeno gradevoli ed interessanti. Gente che ha anche una certa inventiva, un briciolo di fantasia e di capacità creativa, che puntualmente riversiamo nella ricerca dell’effetto speciale, del gioco di prestigio che possa dare al lettore, più o meno occasionale, un motivo valido per sostare a leggere un articolo a tema musicale, cosa, quest’ultima, ne converrete sicuramente, amici miei, abbastanza in disuso negli ultimi tempi. Proprio per quello, appunto, cerchiamo di essere il più interessanti possibile, anche facendo ricorso ad una serie di trucchetti, dei quali l’inizio con rincorsa è di gran lunga il mio preferito, fra l’altro. Insomma, lasciarci senza parole, vuoi per nostre capacità narrative, vuoi per input esterni, è abbastanza difficile. Per cui vi consiglio di segnare sul calendario la data di pubblicazione di questo pezzo, perché per me questo è uno di quei giorni. Il fatto è che dopo aver letto il book dell’album di cui sto per raccontarvi, beh… mi sono convinto che ogni parola o ogni tentativo di effetto speciale sarebbe stato superfluo. E adesso spiegherò perché. Intanto l’album in questione è “I Canti di Arborea”, ed è la terza prova in studio di Valeria Cimò, altra conterranea (la gara d’appalto per le recensioni dei siciliani è stata assolutamente regolare, nonostante il mio cognome potrebbe lasciare qualche dubbio, ndr) dalla classe pressoché sterminata. Dicevo che avrei trovato superfluo tentare di aggiungere colpi ad effetto essenzialmente perché l’album ha già dentro di sé una narrazione incredibile, immanente e trascendente al tempo stesso. Una narrazione letteraria e civile che va di pari passo con quella musicale, che cammina spedita sul filo della tensione interpretativa. Parlo di immanenza e trascendenza perché Valeria parte da un elemento abbastanza immanente, gli alberi, che si fanno paradigma di componenti caratteriali altamente umane e trascendenti. Ma scendiamo nel dettaglio. Il primo pezzo è “Il Faggio”, una splendida rincorsa fra piano e voce che mette subito in chiaro un dato fondamentale: Valeria è una interprete incredibile, in tre minuti di pezzo mostra una quantità notevole di colori vocali e di livelli interpretativi, riuscendo a riempire un brano che proprio nell’arrangiamento scarno va ad avere il suo punto di forza. “E benvenuta libertà che ti chiede chi sei, perché l’alibi perfetto di chi non si bagna mai è la gioia di alcuni e dei rari il furore che preferiste mutare in languore” è una strofa splendida, incastonata in un testo che racconta del dubbio e di come questo interferisca col circostante. “L’Abies Nebrodensis” è dedicato a Rosario Schicchi, che, oltre a essere il direttore dell’Orto Botanico di Palermo, salvò letteralmente questa specie di abete, attualmente specie endemica, favorendone l’impollinazione. Il pezzo ha una dinamica simile al primo, nel senso che anche qui siamo di fronte ad un brano piano e voce, ma sono notevoli i vocalizzi che, contrappuntati da soli di piano su toni jazzati, trovano spazio a metà del brano e sulla sua coda. Un pezzo che parla di mafia, la stessa Valeria subì tempo fa un attentato per aver difeso il suo bosco natale, qui c’è un vero e proprio business caustico dei boschi, incendi che, parlo con inchieste e sentenze di condanna alla mano, spesso sono gli stessi forestali ad appiccare – la Sicilia ha, in media, il doppio di forestali rispetto alle aree boschive presenti – vuoi per collusione, vuoi per semplice “tornacontismo”, come riportano le suddette sentenze. Una canzone che denuncia questo abominio è sempre necessaria. Il pianoforte è lo strumento trainante anche di “Madre Quercia”, pezzo nel quale trova spazio anche una sezione ritmica di tutto rispetto, il cui pattern suona terroso, ipnotico ed incessante. “Questa è la quercia forte e saggia, che insegnò alla foglia a diventar farfalla” è un inno all’arte, alla sua drammaticità a volte necessaria. La voce di Valeria lo canta con la potenza e la sacralità di chi sta andando incontro ad un rituale fondamentale, appunto, lo sgorgare dell’arte. Spettacolare è l’analogia col mondo sacro che troviamo in “Frassino”: “Un albero che sanguina come fosse un Cristo, e il cui frutto di cui si ciba l’uomo (la manna, ndr), non è dato da alcuna impollinazione poiché l’uomo si ciba della sua linfa.” Con questo pezzo i toni si fanno decisamente più scanzonati, a tratti anche ironici, con la voce di Valeria che si rincorre col levare del piano, in un duetto perfetto ed arioso. “Cirasena” è un pezzo dai toni squisitamente folk, con l’inizio – recitato quasi alla maniera dei cuntisti – scandito dal solo tamburo a cornice, che rimane a dettare il tempo anche all’ingresso del piano. I contrappunti di zampogna e friscalettu completano il pezzo, colorandolo ulteriormente, mentre le continue modulazioni ne accentuano il dinamismo. Notevole, inoltre, è, nella seconda parte del pezzo, la ripetizione delle strofe con un flow quasi da rapper, a confermare un controllo vocale incredibile. Il connubio perfetto fra piano e voce ritorna in “U’ Ficu”, pezzo nel quale la potenza interpretativa di Valeria esce in tutto il suo splendore, complice un carico di poesia notevole. Qui si affronta la morte, in modo lucido e delicato, come una evoluzione normalissima di un percorso: un dialogo quasi leopardiano fra un marito che ha perso la moglie questo albero di fico, che racconta. “Na’ vota mi dissi, parrannu cu’ mmia, ca lu cantu a idda assai ci piacìa, e pi’ rincuntralla na’ manera aviss’avutu: muriri cantannu come l’avia canusciutu.” Di solitudine, invece, racconta “L’Alivi di Parricchi”. In questo caso il piano gioca su colori tendenti al valzer, con un ritmo ondivago ed un arpeggio acquoso e dilatato, ulteriormente dilatato dal pattern di percussioni di sottofondo. “Nucidda” ha il ritmo persistente ed il sapore polveroso della taranta, richiamata alla perfezione dal pattern di percussioni e, soprattutto, dal solo di marranzano, mentre la voce, a tratti salmodiante, della Cimò ne sublima il carattere popolare. “Sarvi Rigina”, ultima traccia musicale dell’album, ma penultima secondo la tracklist, è invece la concretizzazione definitiva dell’eterno rincorrersi fra voce e piano che è uno dei leit motiv del disco: qui l’intreccio è perfetto, l’interpretazione è di un lirismo altissimo, commovente. Un pezzo meraviglioso. L’ultima traccia del disco consiste in una raccolta di interviste ai tanti protagonisti dell’album, agli ispiratori delle storie che Valeria canta. Se volete capirci di più (ed anche se non voleste farlo, in verità) andando sul sito di Radici Music troverete il book completo e scaricabile: lì dentro c’è una spiegazione splendida di tutto l’album, oltre alle tante considerazioni della stessa Valeria Cimò sui temi trattati. Concludo dicendo che “I Cantori di Arborea” è un disco elegantissimo, nel quale ad una essenzialità strumentale fa da contraltare una voce che ha tutte le sfumature che potreste immaginare. Tutto questo è montato su dei testi splendidi, in perfetto equilibrio fra poesia ed impegno civile. Credo sia uno di quegli album da non perdere, profondamente legato alla terra, non solo quella fisica, e per questo sempre vivo. 


Giuseppe Provenzano

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