Sam Amidon – Sam Amidon (Nonesuch, 2020)

Come in genere avviene per le categorie musicali, folk ha assunto diverse e talora controverse connotazioni: dal folk boom degli anni ’60 in poi in termine viene infatti “appiccicato” ad artisti che, solo per il fatto di scrivere canzoni originali ed accompagnarsi con la chitarra acustica (o pochi altri strumenti) si ritrovano a far parte di diritto della suddetta tipologia. Personalmente il mio concetto di folk, specie negli ultimi anni, ha assunto forme diverse e non coincide con l’opinione più diffusa fra pubblico e critica contemporanei. È vero che Woody Guthrie e Bob Dylan, forse i principali responsabili dell’evoluzione del concetto di folk, erano cantautori ma il primo spesso utilizzava melodie tradizionali preesistenti per i suoi testi ed il secondo conosceva nondimeno impalcatura e forme basilari della musica popolare di cui ne ha fatto uso per gran parte della sua carriera. Troppo a lungo però sono stati etichettati come folk figure che in realtà altro non sono che discendenti (e non di rado imitatori) di James Taylor o Joni Mitchell; per fortuna queste mie considerazioni, su cui si potrebbe discutere all’infinito, sono state in parte ridimensionate, in tempi più o meno recenti, dall’avvento di autori la cui scrittura da sempre appare assai più fedele ai dettami della tradizione (i nomi di Gillian Welch e Pete Morton, da un lato e l’altro dell’Atlantico, sono i primi che mi vengono in mente). Sam Amidon appartiene alla stessa schiera dei personaggi citati sopra poiché, sin dal principio della sua carriera, non ha mai nascosto il suo amore per le antiche ballate folk (molte delle quali apprese direttamente dai genitori, entrambi musicisti) di cui ha cercato di ricrearne spirito e struttura pure nel suo lavoro compositivo; non solo però perché, prendendo ancor di più le distanze dal cosiddetto “contemporary folk”, l’artista che da anni vive in Inghilterra, come ormai ancora in pochi fanno, non ha mai disdegnato di reinterpretare brani derivati direttamente dalla stessa tradizione (spesso anche piuttosto conosciuti) ed inserirli nei dei suoi lavori discografici, compreso quest’ultimo. Sam Amidon, tuttavia, raramente ha guardato al passato con nostalgia e intenti filologici e semmai ha cercato, e con successo, di reinventare e agganciare la materia folk al presente e mi pare che in questa sua quinta pubblicazione con l’etichetta Nonesuch (comprendendo anche “Folk Songs” del Kronos Quartet con il quale la sua collaborazione è proseguita anche di recente per il tributo a Pete Seeger, “Long Time Passing”, edito però dalla Folkways/Smithsonian) sia andato persino oltre quanto fatto in precedenza, a partire in particolare da “Bright Sunny South” del 2013. Con quell’opera il suo ultimo disco condivide una folta presenza di brani scaturiti dalla tradizione ma qui la ricerca e la costruzione ha assunto contorni ancora più creativi ed attuali, con arrangiamenti e sonorità che in diversi episodi puntano su un ostinato di banjo assistito da una ritmica non meno ossessiva e incalzante, quasi al limite del macchinoso, cui si aggiungono ora un intenso tappeto di synth, come in“Maggie”, il flauto (“Cuckoo”) oppure il sax del fido Sam Geldon, presente in diversi brani, ma che in “Reuben” ricama trame che galleggiano fra il jazz e aromi mediorientali. C’è qualcosa del migliore John Martyn in questi brani, anche se opportunamente riveduto ed aggiornato, così come nell’unico brano del disco che porta la firma del suo titolare, l’ipnotica “Spanish Merchant’s Daughter”. Fra gli altri momenti che non sono stati recuperati dalla tradizione spicca una versione di “Light Rain Blues” di Taj Mahal, che ha perso quasi del tutto i suoi connotati originari diventando una sorta di elettro-folk passato attraverso una tempesta elettromagnetica. Personalmente ho trovato questo trattamento finanche eccessivo per cui ritengo che il risultato sia decisamente superiore nei due brani di ispirazione religiosa, entrambe reinterpretati con la leggiadria e la delicatezza di un Nick Drake, tanto per evocare un altro nome della scena britannica: “Time Has Made A Change” (un hit degli Oak Ridge Boys composto da Harkins Frye negli anni ‘60) e “Hallelujah”. Per sgombrare ogni equivoco, la seconda non è l’arcinota canzone di Leonard Cohen bensì un vecchio inno protestante incluso nella raccolta “Sacred Harp” (stampata nel 1844 ma contenente anche motivi del secolo precedente), così come è di origine tradizionale (e non quella di Gordon Lightfoot) la “Sundown” che chiude l’album, un delizioso quadretto acustico reso ancor più suggestivo dall’andamento solenne e corale a cui ha donato la voce anche Beth Orton, moglie dell’artista americano. È la conclusione più degna per un album che, nella sua ambiziosa e insistente ricerca di nuove modalità espressive per i canti della tradizione, rappresenta probabilmente l’esempio più lungimirante di quanto è da sempre insito nella stessa musica popolare, ovvero di perpetuarsi nel tempo rinascendo ogni volta per trasformarsi in forme inedite ma consone al momento: ed è proprio questo che, a mio parere, fa di Sam Amidon un vero artista folk del nostri giorni e forse anche già proiettato nel futuro. 


Massimo Ferro

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