In bulgaro “nevesta” è la sposa. Da qui deriva il nome di questo trio danese che ha iniziato studiando e interpretando la grande tradizione orale polifonica bulgara ma non solo, perché per Johanne Baardsgaard Lang (voce e tamburo a cornice), Elisabeth Klein (voce e fisarmonica) ed Helene Tungelund (voce e arpa celtica) l’ispirazione per il loro nome è arrivata soprattutto dalla storia della “nevesta” di una canzone popolare, che non amando affatto la suocera – tradizionalmente la coppia seguiva un modello di residenza patrilocale – decide di mettere dei ciottoli nella tradizionale zuppa di fagioli. Alle tre musiciste danesi questa storia è sembrata un’espressione di opinione e ribellione femminile in una società in cui i ruoli di genere erano fissi e, tenendo a mente quel pensiero divergente, hanno scelto di chiamarsi “Nevesta’s Voice”. Altrettando emblematica è la scelta del titolo del loro disco d’esordio “Mother tongues”, che raccoglie dieci canzoni e ballate, il cui tema dominante è la maternità, vista attraverso culture e tempi diversi. In copertina appare una pafti, una fibbia decorata della cintura che fin dal Medioevo è stata parte dell’abito tradizionale bulgaro, dono prezioso per la sposa, che si diceva formasse una relazione simbolica tra lo spirituale e il terreno, proteggendo e preservando così la capacità della sposa di creare una nuova vita. Gli impasti vocali, la scelta di arrangiamenti misurati e minimali, la varietà del repertorio di cui le tre artiste danno conto nelle note di presentazione del contesto sociale di provenienza rendono accattivante e originale questo lavoro, che è aperto dallo joik “Te Orbina”. Seguono due ninna-nanne: “Nuku Nuku”, un motivo finnico accompagnato dall’arpa, e “Laíkas Laíkas” di origine lituana, dove è la fisarmonica a entrare nel bridge strumentale per poi accompagnare le strofe cantate. Con “Morgendrømmen” le tre cantanti ci portano nel mondo delle folkviser danesi, mentre “Mi Zeh Hiðlik/Sov Sødt, Barnlille” fa incontrare un inno battesimale danese e un canto infantile ebraico per la festa di Hannukkah. Nella successiva “Mother Tongues” vengono proposte le voci composite di partecipanti a un workshop che si intrecciano nel canto libero di ninna-nanne dei loro rispettivi paesi dando vita a una suggestiva onda sonora. Invece, la drammatica “Moðir min” (qualcuno la conoscerà nella versione di Björk) è una ghost story islandese di una madre infanticida che mentre è intenta a mungere una pecora e a lamentarsi di non possedere un vestito per una festa, sente la voce del figlio illegittimo che ha ucciso provenire dal pavimento della stalla. Dall’Abkhazia (Georgia) ha origine “Varado”, episodio in cui la polivocalità del trio si esprime al meglio. Segue un canto greco, “Sìko Mana Mou”, in cui la figlia si rivolge alla madre il giorno del matrimonio. Infine, “Pais Dinogad” ci porta nel Galles del XII secolo, a un manoscritto in cui appare questa magnetica rima infantile, per voci e arpa, in cui la madre canta al figlio storie di caccia di suo padre.
Se le tre collezioniste di canzoni della Nevesta’s Voice ci affascinano con il racconto cantato della maternità, i danesi-svedesi Trolska Polska negli undici capitoli (tracce) del loro terzo lavoro, “Eufori”, mettono a punto una sceneggiatura che ci trasporta diritti diritti nel mondo fatato dei trolls norreni. Il fondatore della band (è in scena dal 2011), Martin Seeberg (violino, viola, whistle), ha composto i materiali; accanto a lui ci sono Mads Kjøller-Henningsen (flauti, whistle, ghironda, cornamusa e triangolo), Lasse Væver Jacobsen (nyckelharpa, viola d’amore e violino), Søren Vinther Røgen (cittern e mandolino), Malte Zeberg ( contrabbasso e mandolino), Magnus Heebøll (percussioni, tabla e scacciapensieri) e Alexandra Nilsson (violoncello e violino). Si tratta di un muro del suono acustico che produce una narrazione musicalmente sempre avvincente, senza trascurare una buona dose di humour. Il booklet, poi, contiene belle illustrazioni (di Kent Overby Stück) e testi che fanno da guida per il mondo fatato messo in scena dai Trolska Polska.
Sembrano temi tradizionali da danza provenienti dall’ampio campionario nordico, invece sono composizioni originali, in cui si avertono passaggi folk metal, innesti jazz, guizzi in levare e sprazzi sincopati: il tutto plasmato per dare forma a un baldanzoso concept album. Belle armonizzazioni, i cambi di scenario timbrico, il piacere del suonare insieme - e bene - rendono l’ascolto davvero gustoso. Si apprezzano particolarmente la schottisch “Slattenlangpat”, il valzer “Troldballehusvalsen”, la hopsa “Halvlang”, la contagiosa “Tumult”, la vigorosa “Hylkerne” e la conclusiva “Den Vandrede Kæmpe”, in cui il gigante, dopo la festa, si incammina verso la tundra.
Lasciate che si impossessi di voi una gioiosa e terapeutica euforia.
Ciro De Rosa
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