Dietro le quinte di un lungo viaggio: In ricordo di Cecilia Mangini

La musica, “Stendalì” e un’intervista inedita 

«E tu, cuore arso, piangi, piangi, urla sempre come un bue selvaggio, che al mondo hai perduto ogni luce». Nei giorni in cui si è chiamati ad elaborare la perdita di una grande donna che con la sua presenza ha segnato quasi un secolo di storia, documentarista e intellettuale militante quale è stata Cecilia Mangini, riecheggiano alla mente i versi di Pier Paolo Pasolini che accompagnano le immagini di uno dei film di Mangini maggiormente riproposti e studiati negli ultimi anni, “Stendalì – suonano ancora”, rara testimonianza del pianto rituale nel Sud Italia sulla soglia della sua definitiva scomparsa.  Pioniera del documentario in Italia, come viene definita, prima donna a imbracciare la macchina da presa e, prima ancora, quella fotografica nel secondo dopoguerra, il lavoro di Mangini ha attraversato i cambiamenti della società, dell’economia e della politica italiane degli ultimi settant’anni, non mancando di scorgerne la complessità e le contraddizioni, sempre attento a denunciare ogni forma di oppressione. Non è un caso che il suo ultimo saluto si sia tenuto, lunedì 25 gennaio, negli spazi della Centrale Montemartini a Roma, davanti alla sede della Fondazione archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. Fino all’ultimo dei suoi 93 anni ha avuto la fortuna di poter contare su una lucidità di pensiero cristallina e su un’energia rara: guidava ancora da sola per le vie di Roma e non aveva difficoltà a prendere treni e aerei per raggiungere le varie manifestazioni a cui veniva invitata. Tra i più importanti riconoscimenti degli ultimi anni, la Medaglia del Presidente della Repubblica (nel 2009) «per aver trasmesso alle generazioni future, attraverso la sua attività di cineasta documentarista, alcune delle più belle immagini dell'Italia degli anni ‘50 e ‘60» e il premio Prolo alla carriera, ricevuto lo scorso novembre nell’ambito del Torino Film Festival. Per la sua storia e la sua personalità combattiva è stata anche più volte ospite nel programma Di Martedì su La 7, invitata a commentare i temi caldi dell’attualità politica e sociale italiana. 
A oltre novant’anni, nel 2019 ha persino debuttato da attrice in “Vif-argent", film d’esordio del francese Stéphane Batut, una riflessione sul tema della scomparsa, di cui, come aveva dichiarato Cecilia, «non bisogna avere paura se la nostra vita è stata vissuta pienamente». E la sua di certo lo è stata, anche se è bene ricordare che tra l’ultima stagione, che l’ha vista nuovamente protagonista del dibattito critico, e la prima, degli anni di lavoro più intensi come cineasta, c’è nel mezzo una «damnatio memoriae in vita», come l’ha definita il figlio Luca Del Fra nel giorno del suo ultimo saluto, una lunga stagione di dimenticanza e forse di ostracismo, dovuta al temperamento indomito e alle posizioni mai facili di Cecilia (e, forse, anche all’amicizia con Pier Paolo Pasolini). Negli ultimi anni è tornata anche al suo cinema del reale: raccontandosi, nel 2010, del documentario “Non c’era nessuna signora a quel tavolo” di Davide Barletti e Lorenzo Conte, quindi nel 2013 “In viaggio con Cecilia” in co-regia con Angela Barbanente, e infine nella lunga serie di progetti con Paolo Pisanelli, il suo più intimo compagno di viaggio («figlio e padre», come lei stessa amava dire), insieme al quale ha realizzato, rimettendo mano al suo sterminato archivio, “Due scatole dimenticate – un viaggio in Vietnam”, “Grazia Deledda la rivoluzionaria” (che esce nel 2021) e “Il mondo a scatti”, attualmente in post-produzione. Il suo ruolo nella storia del documentario italiano era stato anche ufficialmente riconosciuto con l’“incoronazione” a madrina della Festa di Cinema del Reale, la manifestazione promossa da Big Sur e diretta da Pisanelli, che l’ha riportata nel Salento ogni estate dal 2005 in poi. 

Echi dal mondo popolare
Proprio il 2005 è l’anno della “rinascita” di Cecilia, e il cortometraggio “Stendalì” è la prima chiave di accesso del pubblico di inizio millennio allo scrigno dei suoi lavori. Nel 2005 la casa editrice salentina Kurumuny ripubblica il documentario, abbinato a un volume a cura di Mirko Grasso 
(M. Grasso, “Stendalì. Canti e immagini della morte nella Grecìa salentina”) con la prefazione di Goffredo Fofi, un testo critico di Gianluca Sciannameo e una lunga intervista a Mangini. In quello stesso anno, “Stendalì” viene proiettato alla Festa di Cinema del reale. «E accadde il finimondo» come lei stessa ha ricordato in varie interviste: è l’inizio della sua nuova consacrazione. Ho richiamato più volte questo lavoro – girato nel 1960 a Martano, in provincia di Lecce - non solo per l’importanza strategica assunta nella meritoria opera di riconoscimento dell’autrice, ma per lo specifico interesse che “Stendalì” riveste all’interno dell’indagine sulle tradizioni popolari legate alla musica. Il film è, peraltro, un rarissimo esempio di questo tipo di documentazione nell’opera di Mangini, la quale nella stragrande maggioranza dei suoi lavori predilige la sovrapposizione di musiche originali, spesso affidate al compositore Egisto Macchi, con cui negli anni sviluppa una solida collaborazione. Ne viene fuori una cesura esasperata tra l’immagine, dal taglio etnografico (ma contraddistinta, comunque, da riprese originali, persino audaci) e il suono decisamente sperimentale. Del resto, la pratica era ampiamente in uso nel documentario etnografico del tempo, considerato comunque come prodotto d’arte (per un approfondimento, Clara Gallini. "Il Documentario Etnografico 'Demartiniano”, La Ricerca Folklorica, n. 3, 1981, pp. 23-31. Jstor). La stessa operazione è condotta, tra gli altri, anche da Lino Del Fra (marito di Mangini) ne “La passione del grano” del 1960, che sovrappone al rito lucano dell’omo-capro le musiche di Domenico Guaccero e il commento parlato di Ernesto de Martino. Tornando a Mangini, dunque anche nei film dedicati alla quotidianità e ai riti delle classi contadine – vedi, ad esempio, “Maria e i giorni” - raramente è possibile accedere al “soundscape” di quel mondo. 
Fa in parte eccezione il lungometraggio “Essere donne”, una panoramica sul lavoro e sulla condizione femminile in Italia negli anni del boom economico, che si addentra anche nelle campagne: vi compaiono, brevemente, diversi canti popolari, tra cui una versione del celebre “Fimmene fimmene” intonata da un gruppo di tabacchine salentine. In “Stendalì”, Mangini si affida invece a Egisto Macchi, ma qui il suo lavoro si situa “a lato” e non al centro dell’opera, poiché vi concorrono la voce narrante di Lilla Brignone che interpreta il testo di Pasolini e i canti funebri in lingua grika delle donne protagoniste del documentario. Si tratta dei “moroloja” – dal greco mòira "destino" e logos, “discorso”, “discorso sul destino (del defunto)” - canti del lutto intonati dal gruppo delle lamentatrici funebri, donne di famiglia e del vicinato accompagnate dalle prefiche o rèpute, retribuite. Una pratica rituale, accompagnata da gesti e movimenti tipici, per incanalare il dolore del lutto e sfuggire alla disgregazione, nella quale i codici della preghiera cristiana sono quasi sempre messi a tacere a favore di una lamentazione di ascendenza pagana, in cui la morte è tetra mancanza, buia permanenza del corpo del defunto nel sottosuolo (per una ricostruzione del contesto di “Stendalì” si rimanda a "Il Suono Dell'Ultimo Saluto" di Michele Santoro, riferimento imprescindibile per l’argomento, anche perché ispirò l’opera di Mangini, è “Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria”, Einaudi, Torino, 1958; nuova edizione Bollati Boringhieri, Torino, 2000; ma anche le ricerche di Alan Lomax e Diego Carpitella del 1954, raccolte in Maurizio Agmennone, “Musica e tradizione orale in Salento”, Squilibri, Roma, 2017; un puntuale lavoro di ricostruzione del repertorio dei moroloja è stato fatto più di recente da Brizio Montinaro, “Canti di pianto e d’amore dall’antico Salento”, Bompiani, Milano 2004; sul web, è possibile ascoltare alcuni canti di pianto salentini sul sito dell’Archivio Sonoro della Puglia, promosso dall’associazione Altrosud con il ministero dei Beni culturali e l’assessorato alle Attività culturali della Regione Puglia).
«(…) Io ti aspetterò, io, o mio figliolo, io ti aspetterò fino alle nove, quando io vedrò che tu non vieni, io perderò ogni speranza e se vedrò che tu non vieni e alle dieci non ti fai vedere, alle dieci sarò divenuta terra, terra, terra da seminarvi. Io ti aspetterò, io, o mio figliolo, io ti aspetterò fino all'anno, e quando io vedrò che tu non vieni, annerirò come fuliggine. E tu, cuore arso, piangi, piangi, urla sempre come un bue selvaggio, che al mondo hai perduto ogni luce (...)»
. Pasolini compose il testo di “Stendalì” partendo dalle strutture classiche dei moroloja, e rielaborando liberamente motivi ed espressioni ricorrenti per coglierne il nucleo di strazio e lacerazione, in un originale esperimento poetico contemporaneo che fonde mondo popolare e tragicità classica. Le immagini stesse, pur documentando un rito realmente esistente all’epoca, sono una parziale ricostruzione realizzata in collaborazione con le donne protagoniste del documentario (si tratta, come dichiara Marco Bertozzi, di «un dilemma dinnanzi al quale si trova Cecilia Mangini come molti dei registi demartiniani al cospetto di pratiche tradizionali in via di scomparsa», v. Rai Storia, “Cortoreale. Gli autori del documentario italiano”; nella puntata dedicata a Mangini è possibile visionare per intero diversi suoi cortometraggi, tra cui il già citato “Maria e i giorni” e lo stesso “Stendalì”).

Un’intervista inedita
In questi anni di rinnovato interesse, non sono mancate le occasioni di accurata ricostruzione del lavoro di Mangini nel Salento. Nel giugno 2016, nel corso di una delle interviste concesse a chi scrive (per l’inaugurazione della mostra “Cecilia Mangini. Visioni e passioni” presso il Cineporto di Lecce) Cecilia è tornata ad approfondire la storia e il “dietro le quinte” di “Stendalì”. Riporto qui questa parte dell’intervista, sinora inedita. 

Se ripensi a quei giorni, che cosa ti rimane? Quale ricordo? Quale suggestione? Prevale la paura o il fascino?
È stata una delle più belle esperienze che abbia mai avuto. Ti racconto perché ho girato “Stendalì”. Era uscito un libro di Ernesto de Martino, “Morte e pianto rituale”: l’ho letto in una notte, la mattina dopo, insieme a Lino (Del Fra’, ndr), che era mio marito ma anche lui un documentarista, siamo partiti in macchina velocemente, follemente, per i paesi di lingua grika del Salento. Non c’era una squadra con noi, nessuna equipe, l’abbiamo trovata lì a Martano. Girare quel documentario è stato qualcosa di unico, in collaborazione stretta con queste donne meravigliose che non avevano mai visto il cinema. Devi pensare che Martano e i paesi della Puglia in generale erano così arretrati che non c’era un bar, non c’era una pensione...bed and breakfast? campa cavallo! Quindi, queste stesse donne andavano anche in cucina e ci preparavano da mangiare. E nonostante non ci fosse un cinema, nonostante la tv ancora non fosse arrivata, loro con estrema naturalezza hanno rappresentato sé stesse. Perché erano delle professioniste del sacro. Io trovo che chiamarle “prefiche” sia un dispregiativo. Dicono: “si facevano pagare”. Ma perché, gli avvocati non si fanno pagare, e i medici? Loro avevano questa lucidissima sensazione, che mi ha confidato la più vecchia delle donne del pianto di “Stendalì”: “moriamo noi e il pianto se ne muore”. E quindi avevano il desiderio che qualcosa di questo pianto rimanesse. Magari una situazione del genere si riproducesse sempre! Raramente mi è capitata la totale collaborazione che ho potuto avere con queste donne.

Come ricordi il tuo lavoro con Pier Paolo Pasolini?
Lo avevo già chiamato per un altro documentario (“Ignoti alla città”, ndr). Quando ha visto montato Stendalì...! (sorride) Ha scritto quel testo bellissimo. Nessuno di noi sapeva una parola in griko del Salento, ma lui conosceva un testo del 1870 che riportava il pianto funebre dalla lingua grika in italiano con testo a fronte. 
Il testo di “Stendalì” non esiste da nessuna parte, perché lui lo ha creato prendendo una strofa da una parte, una da un’altra, facendo un collage, un mosaico: è suo. Aveva questa genialità, questa capacità di capire le immagini, che cosa c’era dietro. Si appropriava di quello che io volevo dire, e con una rapidità strepitosa. Ho ricevuto dei testi per documentari che erano di tre pagine, di cui quando riuscivi ad usare un terzo era già una vittoria… Pasolini era stringato, essenziale, glielo devo riconoscere. E poi, come ho detto, è stata una fortunata combinazione incontrare queste donne veramente eccezionali. Io le ritengo coautrici con me. 

Vi siete riconosciute nella stessa sensibilità, nello stesso rispetto.
Loro avevano chiara la sensazione della loro importanza. Perché il pianto funebre, come aveva scoperto de Martino, è quello che consente in una società economicamente disastrata di poter resistere al dolore distruttore della morte. Quando qualcuno muore, le persone che sopravvivono non sanno come riusciranno a farlo. Nel momento in cui il rito le sorregge, ne incanala e ne riduce la disperazione, diventa importantissimo. Loro sapevano che cosa rappresentavano: erano un argine al dolore. 

Il loro esserci rappresentava la presenza della comunità. 
Hai perfettamente ragione, era una funzione essenziale in una comunità.

Avrei voluto chiederle ancora tante cose. Quando ho cominciato a scrivere questo testo, certamente mi è mancato non aver potuto parlare di più, con lei, della musica. Ma mi è venuta in soccorso una speciale conversazione tra Cecilia e Vinicio Capossela, avvenuta nei giorni della Festa di Cinema del reale 2014, nella quale torna anche al ricordo di “Sendalì”. È quasi ora di salutarsi, quando Cecilia esprime un’ultima riflessione: «Mi è venuto in mente - dice - che oltre ad essere “eucarestia” la musica è “ecclesia”, accoglienza. È come se fosse la nuova chiesa nella quale tutti siamo uguali e compartiti». Parole che sigillano in maniera perfetta l’intero nostro discorso. 

Giorgia Salicandro

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