Con un territorio di quasi dieci milioni di chilometri quadrati e una popolazione di almeno un miliardo quattrocento, la Repubblica Popolare Cinese è un’immensità culturale che si definisce ufficialmente uno stato multietnico con 56 “gruppi etnici”, detti Mínzú, e che politicamente designa 55 gruppi come “minoranze” rispetto alla maggioranza Han. Oltre ai “gruppi etnici” riconosciuti, molti nativi identificano sé stessi come membri di comunità non classificate o che non hanno statuto di minoranza riconosciuta.
Occorre dire che termini quali “identità etnica”, “gruppo etnico” e “minoranza”, impiegati nel discorso comune e mediatico, sono categorie in uso nelle scienze sociali portatrici di concetti, significati e implicazioni ideologiche complesse, non certo riconducibili a indiscutibili realtà empiriche o peggio ancora statiche e fisse. Le differenze, inoltre, non determinano per forza il sorgere di una minoranza. Ciò che conta è, piuttosto, l’etero-definizione e l’auto-definizione del gruppo minoritario. Detto diversamente, dobbiamo fare i conti con rappresentazioni “finzionali”, socialmente costruite, di meccanismi di produzione dell’identità. Per quanto ci si possa basare su fatti oggettivi, gli indicatori della diversità si attivano sempre come tali in rapporto alla situazione in cui ci si trova: la diversità è relazionale e situazionale.
Ad ogni modo, riguardo alla Cina, parliamo di una varietà di genti non pienamente indagate musicalmente sia dagli studiosi cinesi che da quelli occidentali; siamo di fronte a gruppi che abitano territori molto diversi, esprimendosi in una grande varietà di lingue: oltre al cinese mandarino e ai diversi dialetti, si parlano lingue sino-tibetane, altaiche, austroasiatiche e indoeuropee.
Sotto il profilo musicale, parliamo di una varietà di combinazioni canore, spesso in forma polifonica, assenti tradizionalmente presso gli Han, e di almeno diverse centinaia di tipologie di strumenti musicali, per non dire poi dei generi musicali. Alcuni repertori come la tradizione classica del mūqam degli Uiguri, con evidenti legami con la tradizione arabo-islamico, è entrata nella lista dei patrimoni immateriali dell’umanità dell’Unesco, ma molti altri repertori e generi meno noti sono anch’essi parte delle lista dell’Intangible Heritage.
Con queste premesse, ci accostiamo alla collana “Folk Music of China” prodotta dalla Naxos World. Si tratta di una ricognizione curata da Hou Dudu, musicista con un passato di studi al Conservatorio Centrale di Pechino ma residente a Shanghai, che ha visto finora la pubblicazione di otto volumi e che conta di aggiungere altri undici lavori discografici a completamento dell’opera.
Dal momento che registrazioni a largo raggio ufficiali cinesi risalivano alla metà del secolo scorso ed erano state prodotte con mezzi tecnici non all’avanguardia, Hou ha messo a punto un progetto di campagna di rilevazione da realizzare con strumenti tecnici adeguati alla contemporaneità. La sua proposta è stata accolta dalla casa discografica Kuke per cui lavorava al fine di costruire una massiccia raccolta d’archivio. Dal 2009 al 2013, Hou e sua moglie Li Zhao (che fungeva da tecnico del suono) hanno attraversato la Cina, raccogliendo canzoni popolari da ogni gruppo etnico riconosciuto, spingendosi anche al di fuori della Repubblica Popolare, a Taiwan, lo stato insulare situato tra il Mar Cinese Orientale e il Mar Cinese Meridionale, per raccogliere repertori delle popolazioni “aborigene” locali.
La label Kuke ha pubblicato le registrazioni di Huo Dudu in 55 album di breve durata con il titolo di Tianlai (Suoni della Natura), distribuiti nelle biblioteche musicali e nei
dipartimenti universitarie. La serie ha anche ricevuto prestigiosi riconoscimenti ufficiali. Acquisiti i diritti, la Naxos World sta ripubblicando l’opera in una nuova veste editoriale. Dallo Xinjiang allo Yunnan, dalla Mongolia Interna al Guangxi, dal Qinghai allo Heilongjiang, dallo Shichuan a Gansu e fino a Taiwan ci si inoltra in un viaggio affascinante tra una gran varietà di comunità e di musiche.
Ogni album contiene note a carattere etnografico e linguistico sui gruppi e indicazioni su repertori, interpreti e materiali musicali. La maggioranza delle espressioni che si ascoltano sono canti (d’amore, di lavoro, rituali, nuziali, da danza, a carattere teatrale popolare, ecc.), mentre limitato è il numero di strumentali, sebbene non manchino chicche, come il suono del gugan, un flauto costruito con stelo di grano, del flauto nasale dei Pawan di Taiwan, delle fisarmoniche delle minoranze russofone e dei cordofoni delle popolazioni tagike, kirghise e kazake del nord-ovest.
Nel primo volume dedicato alle province di Qinghai e Gansu, situate nel Nord-Ovest della RPC, si ascoltano forme di “canto lungo” degli Yogur, i canti hua’er dei Salar, le espressioni canore dei Tu, dei Dongxiang e dei Bonan. Il secondo volume offre registrazioni di cinque minoranze della Mongolia interna e dell’Heilongjiang. La Mongolia Interna è la terza provincia per estensione, l’Heilongjiang è la sesta. Siamo nella parte settentrionale e nord-orientale della RPC e il lavoro offre ascolti di repertori Mongoli, Daur, Oroqen, Hezhen ed Evenki, tutte popolazioni che hanno adottato la scala pentatonica cinese e in qualche caso anche scale eptatoniche e che nelle loro musiche presento elementi associati allo sciamanesimo.
Raggiunta la provincia meridionale dello Yunnan, il terzo volume si focalizza sui gruppi Va, De’ang e Blang di lingue austro-asiatiche, vicine al khmer e al vietnamita. Sempre nel sud del Paese, il quarto volume si interessa alla provincia del Guangxi, che confina con il Vietnam a sudovest e il golfo del Tonchino a sud. Le intricate armonie vocali eterofoniche Zhuang sono uno dei punti di forza di questa raccolta, così come lo sono estratti dall’opera popolare Nuo dei Bouyei (ma anche gli Han rappresentano questa forma di teatro) , caratterizzata dalla presenza di maschere, abbigliamento e ornamenti molto particolari. Ci sono i canti Mulao, tra i quali spicca una “December Love Song”, interpretata da due voci, di cui quella di registro più basso fornisce un bordone di accompagnamento della voce che esegue la melodia. Interessanti anche le espressioni dei Maonan, in particolare i canti rituali (i Feitao).
Dall’isola di Taiwan arrivano manifestazioni folkloriche di Amis, Atayal, Saisiyat, Tso, Paiwan, Rukai, Bunun, Seediq e Truku distribuiti in tutta l’isola. Gli Amis sono giunti agli onori della cronaca negli anni ’90 del secolo scorso per uno dei più clamorosi casi di appropriazione culturale della word music. Era il 1994 quando il gruppo tedesco Enigma usò un corposo campionamento di un canto sacro, ripreso da un disco di taglio etnomusicologico che non fu riconosciuto dai musicisti tedeschi.
Il brano divenne anche famoso come tema dei giochi olimpici del 1996. La causa internazionale intentata dai cantanti Amis fu vinta da questi ultimi. Da non perdere le due donne Saisiyat (Qiong Feng Jin Rong e Feng Zhu Xiu Xiang) che duettano in un canto di lavoro (“Weaving Song”): interessante accoppiata di voce più acuta e tagliente e di voce più corposa che rende il loro unisono davvero interessante sul piano armonico. Del flauto Paiwan nel sud dell’isola si è già detto, ma è sorprendente anche il repertorio polifonico Bunun. Con il sesto volume siamo di nuovo nello Xinjiang, ma non tra la maggioranza locale costituita dai perseguitati Uiguri ma da gruppi tagiki, dei quali ascoltiamo il suono del rawap, liuto a manico lungo tastato, e dal satar, strumento ad arco dotato di tre corde e da un tamburello. Meno nota la presenza di russofoni del Tianshan, i Yining, documentati forse per la prima volta con le loro musiche di forte impronta folklorica russa. Ci si sposta in un’area fortemente multiculturale per il settimo album (“Folk Songs of the Yi and Qiang Tribes in Sichuan & Yunnan”). Nelle regioni montagnose di Sichuan e Yunnan vivono i Qiang e gli Yi. Il repertorio qiang presentato proviene dalla contea di Xin Beichuan, la cui popolazione è stata ricollocata nel nord della provincia di Sichuan dopo il terremoto del 2008 che ha avuto un impatto devastante sulla popolazione. Invece i canti Yi provengono dalla contea di Nanjian nello Yunnan.
Un disco forse non proprio agevole per chi non è un cultore, ma i cui documenti sonori sono davvero rilevanti e coprono differenti occasioni sociali festive. Si ascoltano, per esempio, i “Da Ge”, danze cantate degli Yi, o le “seaweed song” dell’area del lago Yilong, una delle destinazioni turistiche più visitate, soprattutto in estate per lo spettacolo dei fiori di loto. Le tre parti di una “seaweed songs” - letteralmente: canti delle alghe, tradizionalmente intonati durante la pesca o la raccolta delle alghe - richiedono una voce principale e un coro, con alternanza di voce di petto e di testa. Invece, più vicino alle musiche dell’Asia centrale il repertorio delle minoranze kazake e kirghise del’ottavo album, il lavoro nel quale è più forte la presenza strumentale con il tamboura che accompagna il canto kazako. Invece, il “yue long” è un genere letterario e un tipo di canto eseguito soprattutto ai matrimoni, inserito nella lista del Patrimonio Immateriale UNESCO. Il disco porta al centro dell’attenzione anche il komuz, strumento principale della musica kirghisa, dotato di tre corde e non tastato. È usato come solista o come strumento di accompagnamento. È usato in un’ampia varietà di stili musicali. Le corde sono sia pizzicate che strofinate dai musicisti, la cui abilità è data dai cambi di postura che rendono davvero unica una performance di solo komuz.
Lo strumento può essere tenuto in posizione verticale o orizzontale, lo strumento è messo sulla testa, dietro la schiena o tenuto rovesciato. Il brano di Dolkun Ruzahun per “Komuz solo” è un bell’esempio di tecnica strumentale.
In definitiva, “Folk Music of China” è una carrellata di certo non esaustiva ma impressionante per la varietà di materiali. A dirla tutta, però, offre un’immagine troppo incasellata dei diversi gruppi di popolazione, osservati come isole culturali separate. Ciò perché, di fatto, riproduce la rappresentazione ufficiale cinese, che implica la presenza di popoli ciascuno con le proprie usanze e caratteristiche specifiche; popoli “colorati” considerati arretrati rispetto alla propulsione ipertecnologica e globale della maggioranza della popolazione della RPC. Se è vero che la produzione editoriale Naxos mantiene le distanze da un approccio folkloristico riduzionista, nel complesso ripropone l’idea di fissità e staticità non rendendo pienamente conto delle commistioni, delle condivisioni, delle dinamiche culturali.
Ciro De Rosa
Tags:
Asia