Il progetto “Ferrari Safari” è qualcosa di più di una semplice collaborazione artistica, ma piuttosto è un vortice creativo, una alchimia unica nata dall’incontro tra due musicisti eclettici, diversi per origine, cultura e formazione, ma animati dal medesimo desiderio di esplorare, attraverso l’improvvisazione, le potenzialità espressive delle percussioni. Nato a Lusaka in Zambia, ma di origine inglese, ed attualmente di base in Olanda, Michael Baird è cresciuto a contatto con la musica africana, ma ha mosso i primi passi nel mondo della musica suonando la batteria in un gruppo rock-blues e, successivamente, ha attraversato generi musicali differenti, spaziando dal latin al jazz per approdare alla free impro. Nel suo articolato percorso artistico, spicca certamente l’esperienza negli anni Ottanta con gli Sharp Wood con i quali fu tra i pionieri della world music e creò il personalissimo stile voodoo-jazz, ma soprattutto la sua attività di ricercatore con numerose fields recordings in Africa e quella di discografico per la SWP Records, la sua etichetta con la quale ha ristampato la serie “Historical Recordings” di Hugh Tracey in 22 Cd. Dal canto suo, Pino Basile è un percussionista di formazione classica, uno specialista della cupa cupa e dei tamburi a cornice con frequentazioni costanti nel mondo del circo, nel jazz e nella world music. Qualche anno fa, ci colpì molto “Vento e Pietre”, realizzato con la moglie Eufemia Mascolo e prodotto da Marocco Music, e allo stesso modo assolutamente spiazzate e sorprendente è stato l’incontro le “astrazioni africane e i modernismi mediterranei” di “Ferrari Safari”, album frutto di due giorni di sessions con Michael Baird nel suo studio nelle campagne di Utrecht. Abbiamo intercettato il percussionista pugliese per farci raccontare dalla sua viva voce questo nuovo lavoro, senza dimenticare i progetti in cantiere nel prossimo futuro.
E’ avvenuto in maniera casuale online, circa tre anni fa. Quando su Rare Strange Instrument mi pubblicarono un video in cui presentavo il mio cupaphon. Michael Baird mi contattò perché era interessato a questo strumento e alla cupa cupa e si presentò come musicista e produttore dell’etichetta indipendente SWP Records. E’ nata, così, una frequentazione virtuale abbastanza assidua. Successivamente ho scoperto che viveva ad Utrecht in Olanda dove, di lì a poco, mi sarei recato per un concerto con AVA Trio. Ci siamo sentiti e l’ho invitato al concerto. Lui è venuto, ci siamo scambiati i dischi e da lì è nata una bella amicizia. Spesso quando sono in Olanda per concerti e attività varie vado a trovarlo.
Com'è nata l'idea di realizzare un disco di sole percussioni in duo?
In realtà l’idea di fare un disco di sole percussioni è nata dopo aver fatto alcune registrazioni insieme circa un anno e mezzo fa. Ascoltandole e riascoltandole, un giorno Michael mi ha chiamato e mi ha proposto di fare un disco. Io ho risposto che sarebbe stato bello se lui lo avesse ritenuto giusto farlo sulla base del materiale che avevamo a disposizione. Così è nata l’idea del disco il cui concept era nato già durante le registrazioni e che abbiamo sviluppato e chiarito meglio in seguito.
Ascoltando il disco, si ha la sensazione che la scelta del titolo non sia casuale...
Michael è più grande di me di qualche anno. Non sveliamo i numeri. Lui è di origine inglese ma è nato in Africa dove è cresciuto fino ad una certa età e, poi, si è trasferito in Europa quando è finito il periodo coloniale in Zambia.
Tutta la sua storia personale ed artistica è legata fortemente all’Africa, alla sua cultura e alla musica. Quando sei con lui ti trovi davanti un personaggio che è un inglese old style ma si potrebbe dire anche free style, ma nel contempo è anche un africano, fortemente legato alla terra come possono essere solo quelli nati lì, nei villaggi. Allo stesso modo io sono terrone e meridionale quando mi trovo davanti il suo lato inglese e nordico quando viene fuori quello africano. E questo soprattutto per quanto riguarda il sense of humor inglese. Del resto anche io mi difendo con quello tipicamente pugliese che è anche abbastanza senso. Quando ci ritroviamo insieme a suonare o a condividere momenti di musica e storie, viene fuori tutto questo. In particolare, durante le sessions di registrazione tra un pezzo e l’altro si facevano commenti e alla fine venivano fuori sempre battute. La sensazione che avevamo era quella di trovarci a bordo di un bolide ma che faceva fatica ad affrontare una pista ostica e accidentata come possono essere quelle da rally africane. Da qui è nata l’idea di intitolare il disco “Ferrari Safari”. Da questo ne è conseguita anche la scelta dei titoli dei brani che è ovviamente il frutto di una particolare cura nel nonsense.
Quali sono le ispirazioni alla base dei brani?
Non ho idea di quali siano precisamente le ispirazioni alla base dei brani perché durante le sessions non si partiva da un’idea compositiva ben precisa. A volte c’era una base di lavoro che uno dei due proponeva, altre volte mancava completamente ma certamente si stabiliva prima il set-up degli strumenti da usare. In un brano accadeva che Michael suonava il drum set, mentre io il tamburello, in altre occasioni suonavamo altre cose.
Il disco lo abbiamo registrato nello studio di Michael, dove lui si esercita con tutti i suoi strumenti. Immagina due bambini un po’ attempati che per due giorni si chiudono in uno studio con tutti questi strumenti a disposizione e tante cose da fare in completa libertà. Personalmente mi hanno ispirato molto le suggestioni che ho ricevuto da Michael anche rispetto alla cultura africana, per cui quando mi sono trovato davanti un log drum o una karimba mi sono lasciato trasportare dagli strumenti. Suonando, poi, la musica a fatto tutto il resto.
Come sono nati i brani di "Ferrari Safari"? Quali sono le suggestioni che avete voluto evocare nelle quindici composizioni?
Non abbiamo pensato a nulla in particolare da evocare ma, al contrario, se c’è stata un’attenzione particolare è stata quella di evitare accuratamente i cliché rispetto a certi strumenti. Io ho evitato di fare l’africano o quello che non sono, ma piuttosto ho provato ad essere me stesso, un pugliese che gira per il mondo per necessità lavorative ed artistiche. Quando abbiamo approcciato riferimenti più precisi abbiamo cercato di utilizzare lo strumento dell’astrazione, “african astraction and mediterranean modernism… contemporary swinging hot wired”, come ha scritto da qualche parte Michael. Abbiamo cercato di far evaporare il concetto etnico legato agli stili in una astrazione fatta più di improvvisazione di matrice più occidentale. Partendo dalle nostre culture di riferimento, mediterranea la mia e africana la sua, abbiamo sviluppato situazioni e paesaggi sonori legati alle influenze che abbiamo avuto studiando in conservatorio, dall’improvvisazione jazz soprattutto da parte di Michael.
Prima di andare a trovare Michael, lui mi aveva proposto di registrare qualcosa insieme e io avevo accolto l’invito con grande piacere. Quando sono arrivato si è fatto trovare armato fino ai denti con la strumentazione al completo e i microfoni adatti perché voleva registrare in maniera molto professionale quella jam session per documentare nella maniera migliore quell’incontro. Così, per due giorni, abbiamo registrato nel suo studio nelle campagne di Utrecht. Parlare di esperienza di lavoro mi sembra una parola grossa perché è stata innanzitutto un’esperienza di amicizia. La sua meticolosità nel registrare ogni set-up di strumenti ha fatto sì che dopo ci ritrovassimo con del materiale spendibile e divulgabile con un disco. E’ stato un incontro di lavoro unico nella mia vita professionale di musicista perché c’era una familiarità tale che ci sembrava di conoscerci da tantissimo tempo anche se ci siamo visti quattro o cinque volte.
Quanto ti ha arricchito lavorare con Michael?
Michael è per me come un mio fratello maggiore. Io ho dei fratelli maggiori nella mia famiglia, ma lui lo è dal punto di vista musicale e lo considero un po’ la mia guida attuale. Si è creato un rapporto fraterno fra noi ma anche di profondo rispetto reciproco. Credo che questo lavoro sia il risultato di un incontro tra due persone innamorate del proprio lavoro al punto da farne una ragione di vita. Per me è un’amicizia davvero preziosa perché parliamo di un musicista di qualche anno più grande di me, ma con una forte esperienza sul campo anche con la sua etichetta indipendente che gestisce con tutte le sue energie e risorse economiche. Sono anni che si reca in Africa a fare registrazioni sul campo nei villaggi, scoprendo suonatori anziani e salvando la memoria di tradizioni musicali e strumentali che si stanno estinguendo. Quando vado a trovarlo a casa sua, ascoltarlo è come seguire una vera e propria masterclass perché ti racconta esperienze di vita vissuta che non è quella di un etnomusicologo ma di un musicista creativo che si è ritrovato l’Africa dentro, nel sangue e che si è portato dietro per tutta la vita. Quando è tornato in Europa si è ritrovato nero, forse anche un po’ disadattato a dover confrontarsi con la cultura nordeuropea. Tutto questo ha fatto scintille nel suo percorso artistico perché è stata una persona molto libera, ha fatto esperienze in campo jazz con quello che lui ha definito come voodoo-jazz. Ha incontrato diverse personalità del mondo della musica ma sempre con il suo spirito libero. Tutte queste cose mi hanno colpito molto anche perché sono molto appassionato per la musica africana ma in modo non razionale e specifico. Attraverso Michael questa passione è diventata più scientifica, ma anche più naturale e questo per la sua lettura della tradizione sotto il profilo umano ed antropologico, evitando quindi gli stereotipi che in Occidente si hanno dell’Africa.
Dal punto di vista prettamente musicale il disco offre molteplici riferimenti dalla world music al jazz fino a toccare l'avanguardia, tuttavia alla fine si ha la sensazione di aver ascoltato qualcosa di unico. Come si è indirizzato il vostro lavoro in questo senso?
Siamo un po’ la sintesi di quelli che sono i nostri interessi e i rispettivi percorsi artistici, ma essenzialmente i riferimenti che si ascoltano nel disco non sono ricercati ma vengono fuori in modo un po’ irrazionale. Alla fine, quando suoniamo siamo carta bianca, siamo trasparenti. Suoniamo senza pensarci più di tanto. Quello siamo e quello esprimiamo.
Le nostre esperienze musicali ovviamente sono legate al mondo world perché i nostri ascolti e le nostre esperienze musicali spaziano dall’Africa all’India per toccare tutta l’area del Mediterraneo. Allo stesso modo c’è anche la mia esperienza nell’ambito della musica colta contemporanea che ho fatto e continuo a fare con compositori del Novecento. Non mi sono fatto mancare l’ascolto e il suonare jazz non nel senso tradizionale del termine ma con un approccio più moderno. In questo senso è stato molto importante il frequentare la scena olandese con AVA Trio che mi ha permesso di entrare in modo più naturale nei linguaggi più contemporanei dell’improvvisazione, suonando gli strumenti che appartengono alla mia tradizione culturale pugliese e murgiana. Parlo di tamburelli, tamburi a cornice, cupa cupa che poi intono e chiamo cupaphone che uso facendoli dialogare nell’incrocio con culture diverse. Non proverò mai a suonare come un africano o un indiano, ma guardo alle loro culture dalla mia prospettiva geografica. Probabilmente tutto questo incrocio di cose, mescolata all’incontro e alla dimensione di ascolto che si è creata quando abbiamo registrato con Michael ha fatto nasce qualcosa di nuovo come è unico ognuno di noi. Il problema non è l’unicità dell’essere umano ma farla uscire in modo autentico, senza manierismi o esercizi di stile.
Come si inserisce "Ferrari Safari" nel tuo percorso di ricerca sulle percussioni?
“Ferrari Safari” mi ha fatto scoprire una maniera diversa di fare ricerca, giocando e divertendomi ma anche rispettando gli strumenti che si suonano e la loro storia. E’ un po’ come la ricerca del groove…
Ho riascoltato diverse volte il disco e faccio fatica a sceglierne uno in particolare perché ognuno è legato ad un momento particolare. Ogni traccia è come un figlio ed è difficile sceglie perché ogni composizione ha una sua storia e una sua genesi particolare.
Quali sono i tuoi prossimi progetti in cantiere?
La scorsa settimana ho finito di registrare a Bari con Giuseppe Doronzo, il sassofonista italiano di AVA Trio. Da alcuni anni, stiamo lavorando ad un progetto che si chiama “Atterraterr” che guarda ai nostri territori agropastorali attraverso una prospettiva un po’ olandese, un po’ pugliese. Usiamo strumenti effimeri non convenzionali e strumenti classici usati in modo insolito con una scrittura e un’ispirazione legata alle testimonianze che stiamo raccogliendo sul vissuto del mondo contadino in Puglia e nella Murgia in particolare. Il disco uscirà con un’etichetta olandese ed è un lavoro a cui tengo moltissimo.
Michael Baird/Pino Basile – Ferrari Safari (SWP Records, 2020)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK
Pubblicato in vinile e in versione estesa su Cd, “Ferrari Safari” cristallizza il magma creativo nato dall’incontro tra le percussioni dell’inglese Michael Baird (drumset, bongo’s & roto-toms, cymbals & bells, shakers e kankobela lamellophone) e quelle del pugliese Pino Basile (tamburello, tambourine, log drum, djembé, cymbals & bells, gongs, karimba lamellophone, cupaphon). Non si tratta di un ascolto facile nel quale immergesti mentre si è impegnati a fare altro, questo disco richiede attenzione e fiducia. Ascolto, dopo ascolto, infatti, si scopre tutto il fascino delle ardite architetture ritmiche generate dal vasto parco di percussioni a disposizione dei due musicisti e nei quali confluisco la tradizione musicale africana come quella del Mediterraneo, il jazz e la musica contemporanea, ma anche avanguardia e sperimentazione. Aperto dalle poliritmie afro-jazz di “Allattato al seno”, il disco esplora una incredibile varietà di suggestioni sonore, muovendosi tra le trame brillanti di “Carrozzeria non graffiata” alle evocazioni elettroniche con la sperimentale “Login.com”, dall’irresistibile groove di “Funky Cramp” alla divertente “Eco slow march” che rimanda idealmente a “Baby elephant walk” di Henry Mancini. Gustose e ricche di incroci ed attraversamenti ritmici sono le due parti di “Desert Desert” e “Karimba & Kankobela”, ma il vertice del disco è tutto nella sequenza finale con “Carbuettor Dance”, “Captain Sheep” e “Cupa Mall” con quest’ultima che vede protagonista Pino Basile al cupaphon. “Ferrari Safari” è, dunque, un lavoro pieno di straordinarie intuizioni, la cristallizzazione di un momento musicale unico, frutto di un rapporto di amicizia meraviglioso. Da non perdere! Il disco è disponibile su BandcampSalvatore Esposito