
Partiamo da lontano. Ci puoi parlare del tuo percorso di formazione?
Alla fine degli anni Ottanta, da adolescente, ho cominciato a strimpellare percussioni, congas. Ad un certo punto, poi, sono entrato in un conservatorio ed ho assistito ad una lezione di percussioni di un insegnante un po' matto che però mi ha praticamente reclutato “per forza” nella sua classe. E’ stato lui ad insegnarmi la materia, facendomi studiare pezzi di autori di musica contemporanea, catapultandomi direttamente nei repertori di Dontatoni, Berio e Stockhausen.

Dal punto di vista artistico come hai mosso i tuoi primi passi?
Nei primi anni della mia carriera ho avuto una sorta di doppia vita, di giorno studiavo tanto, perché sono entrato in Conservatorio a vent'anni e avevo tanto da recuperare, mentre di notte frequentavo l'underground, suonando jazz e improvvisando. In quegl’anni ho incontrato tutto quello che è passato dalla Puglia, compresa la musica africana e ho fatto tante esperienze di gruppo che mi sono state utili quando ho lasciato il conservatorio.
Come sei entrato in contatto con le percussioni tradizionali?
Ad un certo punto ci fu un corto-circuito. Scoprii, infatti, il tamburo a cornice e mi sorprese moltissimo venire a sapere che mia madre lo suonava, ma di questa cosa non avevamo mai parlato. Sono tornato a casa con una tecnica tradizionale con la quale suonavo una Tarantella Altamurana, imparata da una signora anziana. Mia madre mi vide e mi tolse il tamburo dalle mani e si mise a suonare la stessa cosa. Dissi: ma che cosa succede? Vado in giro a cercare gli strumenti più strani e a casa c'è mia madre che suona il tamburo a cornice? Da quel momento ho intrapreso un nuovo percorso. Ho deciso di gettare la maschera e di ripartire dagli strumenti che ho capito essere nel mio albero genealogico e nella mia cultura.
Quanto è stato importante il tuo background accademico per dare forma alle tue esplorazioni musicali successive?

Come sei entrato poi in contatto con i tamburi a frizione?
Affacciandomi alla cultura tradizionale ho approfondito anche questi strumenti che conosceva da sempre. Quando c'è una tradizione vicino a te quasi non ci fai caso, anzi quando inizi a suonare e a studiare quelle cose quasi le rimuovi. Devo dire, paradossalmente, che mi sono avvicinato a questi strumenti, grazie all'attenzione di un compositore di musica contemporanea che si chiama Riccardo Nova con cui spesso collaboro. Lui mi disse che quei strumenti erano interessanti e mi invitò ad approfondirli. Dalla sua prospettiva di musicista occidentale spesso si è interessato anche ad altre musiche, cominciò ad affiancarmi a musicisti indiani nei suoi progetti, e mi chiese di suonare gli strumenti di casa mia. Da quel momento, piano piano mi sono avvicinato alla cupa cupa, fino a farlo diventare il mio strumento che utilizzo in vari contesti musicali dal jazz all’improvvisazione, dalla techno all’avanguardia. Non ho mai avuto pregiudizi verso i vari generi musicali perché ritengo che la sfida sia quella di far dialogare questo strumento con qualsiasi ambito sonoro. Così, la cupa cupa è diventata centrale nella mia vita musicale, diventando uno strumento intonato che ho sviluppato tecnicamente, e che ho cercato di decontestualizzare dall’ambito folk. Puoi immaginare che quando suoni il tamburo a cornice chi ti ascolta non riesce ad immaginare che vai oltre la pizzica o la tarantella.
Ci puoi parlare dell’incontro con Eufemia Mascolo?
Eufemia Mascolo è una contrabbassista di formazione classica e nelle rispettive vite musicali ci è capitato spesso sia di incontrarci sia di non vederci proprio, presi da impegni diversi. Ad un certo punto le nostre strade si sono incrociate e abbiamo deciso di intraprendere un percorso di vita insieme. Siamo diventati, così, una coppia di fatto che, negli ultimi anni, ha anche messo su famiglia. Nella dimensione domestica, ci siamo ritrovati a lavorare spesso insieme per alcune composizioni su commissione ed abbiamo messo a disposizione l’uno dell’altra le rispettive esperienze artistiche. Del resto facciamo questo di mestiere, viviamo di concerti ed attività legate alla produzione musicale. Abbiamo attive alcune collaborazioni nell'ambito del circo e della danza contemporanea, in particolare con Francesco Sgrò, direttore della FLIC Scuola del Circo di Torino. Amici acrobati e circensi ci chiedono spesso musiche per produzioni e live. Proprio lavorando su alcune di esse sono state gettate le basi per il progetto E.P..
Hai fatto cenno alle vostre collaborazioni con il circo e la danza contemporanea. Come avete intrapreso questo cammino?

Dal circo, dicevamo, siete approdati al progetto E.P…
Molti dei brani presenti nel disco hanno già avuto una loro vita, essendosi sviluppati nel corso degli ultimi anni nei vari lavori che abbiamo fatto per il circo e la danza. Ultimamente pensavo che questi brani erano nati per essere suonati con degli artisti in scena ed ora ci ritroviamo ad ascoltarli su disco. In realtà, però, il nostro approccio al fare musica resta sempre lo stesso sia quando intersechiamo il nostro percorso con altre discipline, sia quando siamo noi stessi protagonisti. Devo dire grazie, però, alla saggezza di Rocco Pasquariello il quale, dopo aver ascoltato i nostri brani, si è appassionato molto al nostro lavoro e con la sua guida siamo riusciti a metterli insieme con una prospettiva più musicale. Lontano dai territori in cui erano nati, i brani sono, così, rinati a nuova vita e così ha preso vita anche il concept del disco, una sorta di omaggio che abbiamo fatto alla nostra terra. E’ stato un primo gesto di restituzione, un gesto politico dalla prospettiva musicale. Abbiamo raccolto quei frammenti della cultura orale che sono sopravvissuti e li abbiamo rielaborati in una veste contemporanea e con l’aiuto di Rocco è nato questo “Vento e Pietre”, totalmente murgiano ma allo stesso tempo completamente astratto.
Come hai indirizzato il lavoro a livello compositivo?

A livello sonoro “Vento e pietre” si apre anche ad altre influenze come la Gnawa evocata nel brano omonimo…
Qualche anno fa sono stato in Marocco per un festival e questa esperienza mi ha arricchito moltissimo dal punto di vista musicale avendo collaborato con i musicisti del luogo. Ero in una zona ricchissima musicalmente e là ho ritrovato il nonno, il papà della tarantella. In quel periodo anche ad Altamura abbiamo frequentato molti musicisti nordafricani che erano arrivati in Italia e spesso ci trovavamo a suonare insieme. In quei momenti non si sentivano più differenze con la nostra cultura. Una volta scoperta quella origine diventa naturale approdare a composizioni come quella che riflettono l’esperienza di quel periodo.
Nelle interazioni con la musica contemporanea sorprendente è “Cupaphone”…
“Cupaphone” è un omaggio al chitarrista Sergio Altamura. A distanza di anni ci siamo ritrovati dopo aver collaborato nell’Ark Ensemble negli anni Novanta e lui mi aveva dedicato un suo brano “Octopus” e questo è stato il mio modo di ricambiare.
Ci puoi raccontare del tuo incontro con Laurent Delforge e Michele Ciccimarra che hanno collaborato alla realizzazione di “Vento e Pietre” …
Altro brano cardine del disco è “Spaccapetr”…
Originariamente questo brano si intitolava “Spider” perché lo avevo scritto per il numero di una contorsionista della Costa Rica nel quale veniva evocato il ragno. “Spaccapetr” è la mia personale interpretazione del concetto di pizzica pizzica e tarantella da cui ho cercato di astrarre il groove e l’energia. E’ un po’ quello che ha fatto Varese con Stravinski con le melodie eliminate e l’aspetto armonico.
Il disco si chiude con il brano tradizionale “Mo Moure”…
Il testo è tradizionale, mentre la melodia è nota in diverse varianti. Quella che abbiamo ascoltato noi è dell’area foggiana, tuttavia Eufemia, che è di origini lucane, mi ha detto che i suoi genitori ne conoscevano una versione differente. Il brano è stato orchestrato in un contesto timbrico tipicamente indiano, mentre dal punto di vista formale è quello più rigoroso su cui abbiamo lavorato per far quadrare le cose tra un testo tradizionale con una metrica pugliese e la ritmica matematica di origine indiana. E’ stata un po’ una scommessa.
Quanto è importante l’improvvisazione nella tua musica?
Molto. Devo citare Steve Lacy con il quale ho suonato per un disco con l’orchestra Zetema di Matera, quando suonavo il vibrafono. Lui diceva che la composizione richiede tempo e ci puoi impiegare notti e giorni mentre l’improvvisazione è lo stesso procedimento in due secondi. Per me una composizione può nascere dall’improvvisazione e ci sono momenti in cui mi piace suonare senza pensare. Ho capito che in me ci sono aspetti istintivi molto più importanti di quello che possa ammettere e questo per me è un procedimento compositivo, poi ritornandoci c’è già il seme di un’idea per quello che può diventare una composizione. Per me è quasi tutto.
La nostra prossima sfida è quella di capire come un disco che ha un senso dal punto di vista dell’ascolto possa evolversi in uno spettacolo dal vivo. Spesso con il progetto “Musica Visiva” ci siamo esibiti dal vivo con Gianfranco Maiullari, videoartista specializzato in videomapping ed autore del videoclip. Mi piacerebbe continuare a lavorare con lui perché quando mi ritrovo a suonare solo musica mi sento un po’ solo. Ho sempre bisogno di un altro livello. Certamente quello che non faremo è rifare i brani così come sono stati registrati, perché ci vorrebbe l’organico al completo. “Vento e Pietre” è fatto e ha una storia. Probabilmente proveremo ad orchestrare e riarrangiare i brani per ampliare il nostro discorso dal punto di vista creativo sul palco.
E.P. – Vento e Pietre (Marocco Music/Aquadia, 2017)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK
Pubblicato dall’etichetta napoletana Marocco Music e prodotto da Rocco Pasquariello, “Vento e Pietre” è il primo disco del duo E.P., nato dall’incontro tra la contrabbassista Eufemia Mascolo e il percussionista Pino Basile. Condividendo il quotidiano della dimensione familiare e l’attività di autori di musiche per circo e danza contemporanea, questi due talentuosi strumentisti, hanno intrapreso un originale percorso di ricerca che dalla musica tradizionale delle Murge li ha condotti ai suoi contemporanei dell’avanguardia. Tappa dopo tappa, anno dopo anno, si è andato componendo un itinerario sonoro sorprendente che riannoda i fili del tempo tra passato e presente, proiettando le radici della cultura popolare verso il futuro. Frutto di una lunga gestazione durata dal 2008 al 2017, il disco è stato registrato presso l’E.P. House Studio di Altamura e raccoglie undici brani, in larga parte originali, realizzati con la partecipazione del chitarrista Sergio Altamura, del batterista/performer Michele Ciccimarra e di Laurent Delforge, musicista elettronico della scena nord europea. Durante l’ascolto, ad emergere sin dalle prime note di “Murgese”, il brano che apre l’album, sono le complesse quanto affascinanti architetture sonore costruite da Pino Basile. In particolare, i suoni arcaici delle percussioni tradizionali come tamburi a cornice, bubbù, colacola e cupaphon dialogano con le melodie intessute dal contrabbasso dando vita a sorprendenti incastri sonori con l’elettronica. Ad impreziosire il tutto è l’originale cifra stilistica che caratterizza ogni singola traccia e sfugge a qualsiasi tentativo di fredda classificazione. Brano dopo brano si tocca con mano la tensione continua del duo nel superare qualsiasi steccato sonoro, dando al concetto di confine una dimensione del tutto nuova, declinata attraverso imprevedibili intersezioni timbriche. Brillano, così, le ardite costruzioni ritmiche di “Orme” e “La fabbrica delle pietre”, gli incontri con la tradizione musicale del nordafrica di “Gnawa” e “Nijii” e la potenza evocatrice delle immagini sonore della title-track. Il vertice del disco arriva, però, verso il finale con “Cupaphon” e “Spaccapetr” che con la loro dirompete carica immaginifica avvolgono l’ascoltatore conducendolo nel vortice sonoro della trance. I suoni antichi del canto tradizionale murgiano “Mo moure” in cui si intrecciano voci e percussioni, chiudono un disco di rara bellezza che non mancherà di sorprendere quanti vi dedicheranno la giusta attenzione.
Salvatore Esposito
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